Una testimonianza dalla Rsa San Frediano di Forcoli

«Come in un fronte di guerra»

di Francesco Fisoni

Il prolungato periodo di confinamento da cui stiamo uscendo, ha inciso pesantemente sulla tenuta emotiva di un numero considerevole di persone e di categorie sociali. Non occorre farne la lista: finiremmo per fare della sterile, per quanto drammatica, statistica del disagio. Vorremmo però, da queste colonne, tornare a parlare di un particolare ordine di persone che hanno vissuto, in questi quasi tre mesi emergenziali, una loro autentica trincea di guerra. Stiamo parlando dei direttori, degli operatori e degli ospiti delle strutture di ricovero per anziani. Ne parlavamo giusto nel numero scorso, con una lunga intervista a Riccardo Novi, responsabile delle realtà gestite dalla Fondazione Madonna del Soccorso di Fauglia. Questa settimana abbiamo ascoltato la testimonianza di Michela Paperini, vice presidente della Casa di riposo «San Frediano» di Forcoli. Una realtà fondata nel 1986, grazie all’impegno e alla perseveranza di un giovanissimo don Andrea Cristiani, allora parroco proprio a Forcoli. Una realtà che ha dunque alle spalle 34 anni di presenza sensibile al servizio degli anziani soli e in difficoltà. Il racconto dell’avvocato Paperini è appassionato e insieme sofferto, e fotografa tutta la drammaticità delle settimane appena trascorse: «Ci siamo trovati con quattro ospiti positivi, cui era stato effettuato un tampone il 31 marzo. I risultati ci sono arrivati il 3 aprile. A quel punto l’Asl ha effettuato il tampone anche a tutti gli altri ospiti della struttura: su 21 anziani, 17 erano positivi al coronavirus e 4 negativi. Di questi 4 negativi, 3 sono stati immediatamente trasferiti in altre strutture. Tranne i primi 4 anziani risultati positivi, che venivano monitorati fin dalla fine di marzo a causa di una lieve febbre, tutti gli altri positivi risultavano asintomatici al momento del tampone. Poi, dopo pochi giorni, alcuni di loro si sono aggravati e 5 sono purtroppo deceduti».

Il racconto della Paperini si fa a questo punto dolente: «Il quadro clinico di questi nonni era già piuttosto critico. Il covid è arrivato in buona sostanza ad aggravare una situazione complessa e deteriorata». Le chiedo come ha inciso emotivamente sul personale il fronteggiare questi lutti: «Il frangente – mi dice – è stato particolarmente doloroso e difficile. Doloroso perché, tranne che in un caso, tutte le persone decedute erano con noi da molti anni. Viste anche la dimensioni della nostra struttura, che è piccola, quasi familiare, esiste un legame affettivo con questi nonni che è molto particolare. Pensi che tra le persone decedute ce n’era una che era con noi da ben 14 anni». Ci racconta poi del “triduo di passione” vissuto proprio sotto Pasqua: «Il primo decesso lo abbiamo avuto il venerdì santo, il secondo nel giorno di sabato santo e il terzo la domenica mattina di Pasqua. Sono stati momenti angoscianti anche per i nostri operatori, che hanno dovuto seguire il protocollo previsto per i decessi covid che, non so se lei conosce, ma le assicuro non è affatto piacevole. I nostri dipendenti piangevano. Non volevano – comprensibilmente – seguirlo, perché sembrava loro di fare quasi un vilipendio a persone che avevano fino al giorno prima accudito e curato. In tutte le strutture di ricovero si verificano delle morti, e gli operatori sanno umanamente accompagnare i morenti e poi prendersi cura della salma. Ma l’eccezionalità di questa situazione covid è stata emotivamente difficile anche e soprattutto per il personale».

Parlando del personale della struttura ci dice anche che «Nove effettivi sono risultati essi stessi positivi al virus e sono stati quindi immediatamente allontanati dal lavoro e messi in isolamento. Erano i giorni in cui ci sono arrivati rinforzi anche dalla Fondazione Madonna del Soccorso di Fauglia e in cui abbiamo dovuto procedere noi stessi a nuove assunzioni. Nonostante ciò continuavano a mancarci gli infermieri (i nostri infermieri erano tra quei nove contagiati) e quindi a un certo punto, esattamente il 21 aprile abbiamo dovuto sottoscrivere, anche in base all’ordinanza del Presidente della Regione, un accordo con la nostra Asl, la quale s’impegnava da subito a intervenire col proprio personale e a effettuare tutto il coordinamento delle attività. Ma era già dal 9 aprile che l’Asl ci stava supportando inviandoci infermieri, perché nonostante le centinaia di telefonate e proposte di assunzione fatte, non riuscivamo a trovare personale infermieristico disposto a venire. Anche per reperire il personale Oss abbiamo faticato non poco. Una guerra insomma e tutt’ora le cose non sono normalizzate: sussistono infatti problemi col personale rimasto contagiato che, se anche in gran parte adesso si è negativizzato, molti di loro lamentano debolezza e non riescono a rientrare».

Chiedo alla Paperini come si è mantenuto il morale dei nonni in questi mesi: «Forse non tutti erano pienamente consapevoli della reale portata del pericolo che hanno passato, però si rendevano conto che la situazione non era ordinaria. L’eccezionalità si palesava ai loro occhi già nell’abbigliamento schermato degli operatori o nel fatto che tutte le normali attività ricreative erano sospese. La maggior parte di loro erano allettati. Alcuni dei positivi al covid sono stati inoltre supportati nella respirazione da una bombola di ossigeno. Questo lascia facilmente intuire che non erano particolarmente reattivi emotivamente. Poi c’è da considerare che essendosi ammalato, quasi in blocco, il nostro personale, ai nonni sono venuti praticamente a mancare i punti di riferimento e di relazione umana. Cominciano solo adesso a stare meglio. Noi, come struttura, per supportarli psicologicamente e far fronte alla lontananza dai loro familiari, ci siamo immediatamente dotati di due cellulari per le videochiamate. Uno per la “zona rossa” (l’area covid che avevamo allestito in Rsa) e l’altro per la “zona verde”, dove soggiornavano gli ospiti covid-negativi. I familiari venivano in questo modo aggiornati quotidianamente».

In chiusura Michela Paperini ci racconta della vicinanza del vescovo Andrea che si è fatto presente, telefonando e scrivendo mail in Rsa anche tutti i giorni e mantenendo un contatto caldo e costante con Claudio Nesi, il presidente della Fondazione che gestisce la Rsa San Frediano. Poche persone sanno infatti che monsignor Migliavacca ha fatto l’impossibile per far sentire la sua vicinanza a strutture come “Forcoli”, “Orentano” “Fauglia” e alla stessa Stella Maris. In una recente intervista che gli abbiamo fatto, il vescovo Andrea confidava: «All’inizio della quarantena ho cercato di farmi vicino a queste realtà con due video messaggi, pensati e indirizzati particolarmente a tutti gli ospiti presenti nelle Rsa della mia diocesi e presenti nelle realtà gestite dalla Stella Maris. Successivamente ho cercato di tenermi costantemente in contatto con i responsabili delle varie strutture, ascoltando e condividendo le loro difficoltà».

Una seminagione di attenzioni che lasceranno sicuramente un segno.

 

Nella foto il personale della Rsa, in una immagine di repertorio.