Gesù paragona l’amore a un seme, e i nostri cuori a un terreno dove quel seme va a depositarsi. Perché alcuni semi non danno frutto? Non per colpa della qualità del seme, che è uguale in tutti gli esemplari. La differenza non la fa nemmeno il terreno in sé.
I nostri cuori hanno tutti la capacità di accogliere l’amore e di rigiocarlo, almeno in teoria. La differenza la fanno invece alcuni agenti esterni che vanno a sciupare il terreno: gli uccelli che beccano i semi, i rovi e i sassi che impediscono alla piantina di crescere. Per questo le piante hanno bisogno del giardiniere: qualcuno che si prenda cura di quei terreni seminati, che li protegga, li custodisca, li faccia risplendere. I nostri cuori tante volte sono pieni di sassi, di rovi, di avvoltoi. E in tal caso il nostro amore invece che fiorire finisce morto soffocato. Sì, perché per permettere all’amore di Gesù di crescere nei nostri cuori abbiamo bisogno di diventare giardinieri gli uni degli altri.
Quando penso a questo, mi torna in mente la storia che ho scelto di studiare per la mia tesi di teologia. C’erano una volta gli anni di piombo. Le Brigate Rosse, la lotta armata, il sequestro Moro, l’Italia insanguinata. Poi la sconfitta dei gruppi armati, la giustizia dei tribunali che fa il suo corso ma che non porta via le macerie dai cuori. I cuori dei familiari delle vittime: prigionieri del rancore. E i cuori di alcuni ex brigatisti: prigionieri del senso di colpa.
Ed è qui che entra in gioco il giardiniere: il vescovo di Milano, Carlo Maria Martini, che insieme a un’equipe di padri gesuiti e di laici comincia a tessere i fili di dialogo. I giardinieri vanno a incontrare i familiari delle vittime, fra cui Agnese, figlia di Aldo Moro. Poi vanno a incontrare un gruppo di ex brigatisti pentiti, usciti dal carcere dopo la fine della pena, fra cui Adriana Faranda, che faceva parte proprio della cellula Br responsabile del sequestro dell’ex segretario della Democrazia Cristiana. Gli incontri dei giardinieri con i due gruppi separatamente producono uno scambio di lettere.
Piano piano, da entrambe le parti nasce la volontà di incontrarsi. Gli incontri sono numerosi, coinvolgono una quarantina di persone in tutto tra familiari delle vittime ed ex appartenenti alla lotta armata. Gli ex brigatisti raccontano le motivazioni della loro guerra mossa allo Stato italiano, la freddezza dei loro ideali che non ha guardato in faccia a nessuno e si è dimenticata delle persone. E i familiari raccontano chi erano le vittime: cioè i loro cari, al di là dei ruoli istituzionali; il bene che si erano voluti prima che le loro vite fossero spezzate dalla mano delle persone sedute proprio in quella stanza. I familiari dopo i loro racconti vedono gli ex brigatisti piangere, e in quel dolore e in quella disperazione li sentono improvvisamente vicini, vittime anch’essi (oltre che colpevoli) del loro stesso dramma. E questo dolore messo in comune grazie al lavoro paziente e visionario dei giardinieri compie il miracolo di liberare dalle macerie i cuori di tutti i partecipanti, alcuni dei quali (come Agnese Moro e Adriana Faranda) oggi sono diventati amici e girano l’Italia insieme per testimoniare la possibilità di incontri del genere e di una giustizia diversa, basata non sulla vendetta ma sull’incontro e sul dialogo, grazie all’aiuto di giardinieri speciali.