La parola del VESCOVO

A Trieste, la dimensione sociale della fede

+ Giovanni Paccosi

Ho partecipato con i delegati della nostra diocesi di San Miniato, alla 50ma Settimana sociale dei cattolici in Italia, a Trieste, introdotta dalle prolusioni del presidente della Cei, sua eminenza il cardinale Matteo Zuppi e del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, e conclusa da papa Francesco. Già la presenza di queste personalità fa comprendere l’importanza e l’attenzione con cui ci si aspetta dai cattolici in Italia un contributo determinante in questo momento storico in cui la democrazia, che era il tema dell’incontro, sembra trovarsi in difficoltà. Molti governi nel mondo, eletti democraticamente, diventano poi dittature più o meno velate, e pochi cittadini, sempre meno si avvalgono del loro diritto di partecipare alla costruzione politica di una società che tenda al bene di tutti. La democrazia, si è detto non è solo un metodo elettorale, ma una coscienza di mettersi in gioco per il bene comune.

Sono stati giorni intensi, di alto livello e di dialoghi serrati, che hanno messo in luce come la Chiesa in Italia non viva fuori dalla realtà, ma sia fonte di un impegno sociale e politico importantissimo, da parte di tanti. Certo, anche per noi cattolici, non è facile sottrarsi alla tentazione di vivere la fede quasi come un’ispirazione che, invitando all’azione, non ha però una sua originalità precisa. Si capisce che la Chiesa in Italia rifugge da tentazioni integraliste, ma anche si vede la difficoltà di non lasciarsi poi condizionare dalle scelte di parte, che ognuno deve fare, ma che spesso dividono il corpo ecclesiale. Il popolo, soggetto della democrazia, non esiste in astratto, ma è fatto di persone e comunità che, nel rispetto degli altri modi di intendere il bene comune, lavorano con tutti per giungere a un accordo in cui il più possibile l’antropologia, l’esperienza comunitaria che nascono dalla fede – e che possono “risanare” evangelicamente la mente e il cuore della società – siano proposte a tutti con libertà e coraggio.

Il Papa nel suo discorso di domenica 7 luglio ha tracciato una prospettiva che fa respirare. L’esperienza di essere voluti e amati diventa per lui la lotta disarmata ma insistente e chiara per una società in cui il bene di tutti sia misurato sul bene del più debole, in cui il consumismo non determini le scelte di ognuno e l’assistenzialismo non riduca la dignità del lavoro e della famiglia. Ha proposto le città come soggetti di una politica attenta al più debole, e la vita nuova che si sperimenta nella comunità cristiana come criterio per mettersi a disposizione di tutti. Si capisce, mi sembra, la centralità delle nostre comunità cristiane, soprattutto della necessità che in esse si metta a paragone costantemente la fede con le circostanze concrete della vita, e che questo sia fatto insieme, perché la persona sola non può rispondere alle sfide della cultura in cui viviamo. La dimensione sociale della fede, dalla comunione che nasce dall’Eucaristia, è chiamata a mostrare inizi di vita nuova e a condividerli con tutti, accogliendo e valorizzando tanti altri fratelli, che da visioni e esperienze diverse, hanno lo stesso sentire verso l’uomo e la sua dignità, verso i deboli e il loro bisogno, verso gli ideali che conformano un popolo, al di là degli interessi particolari, per l’interesse supremo, ogni persona amata dal Padre. Non persone isolate che entrano nell’agone sociale e politico con la fede solo come bussola interiore, ma comunità unite che si arrischiano insieme a scoprire la pertinenza della fede in ogni aspetto della vita e testimoniano così che un mondo nuovo non è utopia, ma inizio umile eppure presente nella comunità che Cristo ha reso popolo nuovo, in cui si sperimenta la misericordia e l’offerta di ognuno per il bene di tutti.