Si potrebbe pensare che la lectio biblica sulla nascita di Mosè e sulla sua successiva fuga (Esodo 2,1-5), tenutasi giovedì 5 dicembre nella chiesa della Trasfigurazione a San Miniato Basso niente abbia a che vedere con lo spirito di Avvento e di Natale di questi giorni, ma più propriamente con la Pasqua. In realtà come ha fatto riflettere il relatore, mons. Cristiano d’Angelo, vicario generale della diocesi di Pistoia e docente di Antico Testamento alla facoltà teologica dell’Italia centrale a Firenze, si parla anche qui di un Natale, la nascita di Mosè, il salvatore del popolo ebraico. E senza quest’ultima non sarebbe stata possibile la nascita del Salvatore dell’intera umanità, Gesù Cristo.
Meditando si può iniziare con un dato di fatto: dall’incontro tra un uomo e una donna e dal loro amore nasce Mosè: «Un uomo della famiglia di Levi andò a prendere in moglie una donna discendente di Levi». E il passaggio successivo è ancor più significativo: «La donna concepì e partorì un figlio maschio: vide che era bello e lo nascose per tre mesi». Vide che era bello! Ma cosa vuol significare? È solamente lo sguardo di una madre verso il proprio figlio? Il testo biblico non racconta a caso: c’è un parallelismo con il racconto della creazione nella Genesi: «Dio creò … e vide che era bello». Esiste un pericolo: il faraone vuole che siano uccisi tutti i figli maschi del popolo ebraico ma S commette un errore che gli costerà caro: non tiene debitamente conto di «una donna che ha mantenuto il cuore libero». E don Cristiano sottolinea: «Le donne salveranno il mondo perché sanno cos’è la vita, sanno qual è il suo valore». «Non potendo tenerlo nascosto più oltre, prese un cestello di papiro, lo spalmò di bitume e di pece e lo depose tra i giunchi della riva del Nilo»: la madre fa un grande sacrificio, si separa dal bambino. È lo stesso atto della passione di Maria per Gesù sulla croce. La separazione fa soffrire. Ma interviene un’altra donna, la figlia del faraone che, noncurante della politica malevola del padre «vide il cestello tra i giunchi e manda la sua schiava a prenderlo. L’aprì e vide il bambino; ecco il piccolo piangeva e ne ebbe compassione».
Dio opera anche tramite i non credenti: la figlia del faraone conosce la compassione per la vita di quel bambino al quale successivamente darà un nome, Mosè appunto, che significa “tratto dalle acque”. La seconda parte ci presenta Mosè più grande: «un giorno Mosè, cresciuto in età, si recò dai suoi fratelli e notò i loro lavori forzati. Vide un egiziano che colpiva un ebreo, uno dei suoi fratelli. Voltatosi attorno e visto che non c’era nessuno colpì a morte l’egiziano e lo sotterrò nella sabbia». L’episodio è chiaro: Mosè è sensibile all’ingiustizia ma reagisce in maniera sbagliata e provoca la morte di un uomo. «Il giorno dopo uscì di nuovo e vide due ebrei che litigavano», cerca di fare giustizia ma quello che aveva torto lo ammonisce severamente: «pensi forse di potermi uccidere come hai fatto con l’egiziano?». Ecco il dato di fatto: Mosè è un assassino. Mosè è costretto a fuggire perché il faraone lo vuole morto. Ora non ha più patria, è un fallito. «Mosè – ha detto don Cristiano – è cresciuto come figlio del faraone, dell’uomo più potente dell’Egitto, dell’uomo che si considerava un dio. Adesso deve imparare cosa vuol dire essere straniero». Ma, al pozzo di Madian, la terra di nessuno dove Mosè è scappato, dimostra di non aver perso la sua sensibilità verso le ingiustizie: difende le figlie di Reuel dai pastori, stavolta senza atti colpevoli. Entrerà nella casa di Reuel e ne sposerà la figlia Sippora, la quale gli darà un figlio che chiamerà non a caso Ghersom, «vivo come forestiero in terra straniera».
È una via non facile per Mosè, piena di prove ma che lo porterà fino al roveto ardente davanti a Dio, l’unico vero Dio. È il grande disegno della salvezza che pone le basi in questi eventi: «una madre che fa un gesto disperato per salvare il proprio figlio; la figlia del faraone che si fa commuovere; un sacerdote madianita che accoglie in casa un egiziano perché ha fatto un gesto di bontà», quello stesso gesto su cui si costruisce «un nuovo futuro per Mosè» e per il suo popolo, Israele.