“E vidi un altro angelo possente discendere dal cielo, avvolto in una nube… e l’arcobaleno era sul suo capo. Avendo posto il piede destro sul mare e il sinistro sulla terra, alzò la destra verso il cielo e giurò: “Non vi sarà più tempo!”» (cfr Apocalisse 10, 1-6).
In questi giorni foschi in cui cerchiamo di farci coraggio a vicenda, sperando di intravedere i colori di un arcobaleno che sembra ancora troppo lontano, l’immagine dell’Angelo dell’Apocalisse che annuncia la fine del tempo è particolarmente evocativa. È precisamente da questo passo biblico che trasse ispirazione uno dei più grandi musicisti del XX secolo, Olivier Messiaen, per scrivere il più celebre de suoi capolavori: «Il Quartetto per la fine del tempo», composto in cattività, in un campo di prigionia tedesco durante la seconda guerra mondiale. Messiaen, classe 1908, aveva studiato al Conservatorio di Parigi e si era distinto come uno dei giovani compositori più geniali e promettenti della sua epoca. A soli 22 anni aveva ottenuto il posto di organista titolare della chiesa della SS. Trinità a Parigi e l’anno seguente aveva sposato la violinista Claire Delbos, dalla quale, nel 1937, aveva avuto un figlio. La serenità della vita familiare, però, si infranse allo scoppio della seconda guerra mondiale quando Messiaen fu richiamato alle armi nell’esercito francese. Non venne però assegnato a reparti di combattimento, a causa di problemi alla vista, ed entrò nel servizio medico. A Verdun, nel giugno del 1940, cadde prigioniero dei tedeschi e fu recluso nello Stalag di Görlitz in Slesia, al confine tra la Germania e la Polonia.
«Come tutti gli altri prigionieri, dovetti spogliarmi – racconterà anni dopo il musicista -. Nudo così com’ero, continuavo a stringere, con uno sguardo spaventato, un sacchetto che conteneva tutti i miei tesori. E cioè una piccola libreria di partiture d’orchestra in formato tascabile che sarebbero state la mia consolazione quando avrei sofferto la fame e il freddo. Questa eclettica, piccola libreria andava dai Concerti Brandeburghesi di Bach alla Suite lirica di Alban Berg».
In mezzo a tante sofferenze, e forse proprio a causa di esse, nella sensibilità di Messiaen si acuì un fenomeno singolare: la sinestesia. Quando udiva dei suoni, degli accordi, vedeva contemporaneamente dei colori ben precisi. E viceversa, la percezione di alcuni colori produceva nella sua mente armonie musicali. In preda al freddo e alla fame Messiaen cominciò a fare sogni colorati. In una notte gelida, durante un turno di veglia, poté ammirare una bellissima alba boreale. Queste forti impressioni cromatiche divennero per lui musica, saldandosi alla memoria del citato passo biblico dell’Apocalisse.
Per apprezzare la musica di Messiaen non occorre certo avere lo stesso dono della sinestesia, ma sapere che lui, componendo, vedeva dei colori, può aiutarci a comprendere meglio quel passaggio dall’ascolto alla visione che Messiaen intendeva facilitare. «La fede viene dall’ascolto» (Romani 10,17) e termina nella visione di Dio. La sinestesia rendeva Messiaen particolarmente adatto a creare opere profetiche e visionarie che illustrassero questa dinamica della fede e il grande musicista non si sottrasse a questa «vocazione».
Il «Quartetto per la fine del tempo» presenta questa forma, di quartetto appunto, perché con Messiaen erano prigionieri nel campo di Görlitz altri tre musicisti: un clarinettista, Henri Akoka; un violinista, Jean Le Boulaire; e un violoncellista, Étienne Pasquier. Con la complicità di un soldato tedesco, Karl-Albert Brüll, che gli procurava, oltre a qualche pezzo di pane, carta da musica, gomma e matite e che gli permetteva di nascondersi, dopo la spossante corvée mattutina, nelle latrine «per poter lavorare in tranquillità», Messiaen poté comporre uno dei maggiori capolavori della musica del Novecento. E in seguito, sempre grazie allo stesso soldato tedesco, i quattro prigionieri musicisti ottennero un luogo riscaldato in cui ritrovarsi per provare.
La prima esecuzione del «Quartetto per la fine del tempo» ebbe luogo il 15 gennaio del 1941, nel blocco 27B, davanti a una platea composta da migliaia di prigionieri, dagli ufficiali e soldati tedeschi. La temperatura esterna era di 15 gradi sotto zero. I musicisti, per distinguersi dagli altri prigionieri, indossavano delle uniformi usate e zoccoli di legno. Il compositore citò a memoria i primi versetti del capitolo 10 dell’Apocalisse e aggiunse: «Ho scritto il mio Quartetto sotto l’influenza di questo passaggio e in omaggio all’angelo che annuncia la fine del tempo».
Quindi in un contesto così drammatico, si tenne in modo del tutto straordinario e inaspettato, una serata memorabile, densa di spiritualità e di consolazione. Attraverso il ritmo e i colori della musica di Messiaen il tempo con tutte le sue brutture e le sue amarezze scomparve, assorbito dalle realtà ultime del Cielo. Gli otto movimenti che compongono il Quartetto rimandano, non a caso, alla settimana della creazione e all’ingresso nell’ottavo giorno dell’eternità. Il primo movimento evoca la forza, la potenza dell’angelo coronato di arcobaleno che posa un piede sul mare e uno sulla terra. Due accordi, uno più acuto e uno più grave richiamano il poggiarsi possente dei suoi piedi. In contrasto, il secondo movimento, “Vocalizzo per l’angelo che annuncia la fine del tempo”, è una melopea dall’andamento ritmico molto libero, affidata al violino e al violoncello, mentre il pianoforte suona l’accompagnamento con accordi “blu-arancio”, gocce di pioggia nell’arcobaleno. Nel terzo movimento, l’abisso degli uccelli, il clarinetto solo esprime sia l’abisso del tempo, con una melodia cupa, discendente, sia il canto degli uccelli, che simboleggia il nostro «desiderio di luce, di stelle, di arcobaleni, di vocalizzi pieni di giubilo». Al centro della composizione è collocata «La lode all’eternità di Gesù»: le arcate lente del violoncello, accompagnate dagli accordi del pianoforte, disegnano una frase sublime, maestosa, in cui si respira il ritmo dell’eternità. Un forte crescendo s’interrompe improvvisamente e lascia il posto a un suono dolce, lontano. Il Verbo di Dio si è avvicinato a noi, ci sembrava quasi di poterlo afferrare, comprendere, ma ecco che ci appare subito nella sua irraggiungibile alterità. Deus semper major.
Dopo la danza del furore, che rievoca il suono delle sette trombe, il penultimo movimento è dedicato all’arcobaleno che sovrasta la testa dell’angelo. Un tema con variazioni in cui scintillano i più vari colori che Messiaen vedeva nei suoi sogni: «accordi violarosso, blu-arancio, oro-verde, spade di fuoco, stelle improvvise, ecco lo sfolgorio, ecco gli arcobaleni!».
L’ottavo movimento, infine, «Lode all’immortalità di Gesù», è una quieta contemplazione dell’umanità di Cristo risorto, affidata al violino sempre accompagnato dal pianoforte. La melodia cresce progressivamente verso l’acuto, con un movimento ascendente. Segue l’assunzione dell’uomo in Dio, del Figlio nel Padre, fino a perdersi nelle profondità del Cielo.
Dopo circa quaranta minuti di concerto, «l’applauso non scoppiò immediatamente», annotò Marcel Haedrich nella sua cronaca per il bollettino mensile del campo di Görlitz: «L’ultima nota fu seguita da quel momento di silenzio che un capolavoro sublime crea». Messiaen fu rilasciato il mese successivo perché riconosciuto come «soldato musicista», cioè non combattente. Nel maggio del 1941 fu nominato professore di armonia al Conservatorio di Parigi, divenendo uno dei maestri e degli autori più insigni del XX secolo. La sua carriera ha attraversato per intero il «secolo breve». E mantenendosi fedele all’originaria ispirazione visionaria e profetica, Messiaen ha proseguito a creare ponti musicali verso le realtà invisibili ed eterne, arcobaleni mirabili di suoni al di là del tempo.