Il pellegrinaggio di solidarietà dei vescovi toscani in Terra Santa, svoltosi la settimana scorsa, ha avuto l’esito inaspettato che sappiamo dalle cronache, con le difficoltà a rientrare in Italia a causa del riaccendersi del conflitto tra Israele e Iran. Il vescovo Paccosi racconta in quest’intervista quei giorni: il trasferimento in pullman in Giordania, i missili che solcavano il cielo di notte ad Amman, ma anche la visita al patriarca Pierbattista Pizzaballa e le tante realtà di speranza incontrate durante il viaggio.
Eccellenza un viaggio con un epilogo inaspettato e triste. Come vi è giunta la notizia dell’attacco di Israele all’Iran? Quali difficoltà avete avuto a rientrare in Italia?
«Venerdì scorso, alle tre di notte, ha incominciato a suonare l’allarme di allerta del cellulare e ci è arrivato un messaggio che diceva di non uscire di casa e di stare vicino ai rifugi per rischio grave di guerra. Io non sono più riuscito a dormire, e vedendo le notizie che arrivavano ho capito che Israele stava bombardando l’Iran. La mattina avevamo la Messa al Santo Sepolcro. Finita la Messa ci sono venuti incontro padre di Ibrahim Faltas (vicario della Custodia di Terra Santa – ndr) e il segretario della nunziatura, per dirci che ci stavano organizzando un bus per farci uscire al più presto da Gerusalemme perché stavano chiudendo, come poi hanno fatto, la città vecchia. Per cui grazie all’aiuto e ai lasciapassare della nunziatura e dell’ambasciata, siamo riusciti con un pullman a uscire da Gerusalemme, arrivare al confine e passare in Giordania dove ci ha accolto padre Mario, un sacerdote di Sansepolcro che è là da tanti anni. Poi la sera abbiamo incontrato il nunzio e l’ambasciatore in Giordania. Quindi aiutati da tutti ci siamo rassicurati, anche se ad Amman abbiamo visto passare in cielo, più volte, tanti missili che dall’Iran andavano verso Israele. Vedevamo anche gli scoppi della contraerea che cercava di intercettarli. E anche lì ad Amman suonavano le sirene dell’allarme. È stato impressionante vedere come da un momento all’altro si può passare da una situazione apparentemente tranquilla come quella di Gerusalemme a uno stato di guerra».
Il vostro era un pellegrinaggio di solidarietà. Com’è la situazione in Israele in questo momento? E in particolare della comunità cristiana?
«Il nostro pellegrinaggio era pensato per far sentire la nostra vicinanza ai cristiani della Terra Santa che soffrono in modo particolare questa situazione, perché loro vivono dei pellegrinaggi e del turismo e da due anni è tutto bloccato. Volevamo poi anche renderci conto di quello che realmente lì succede. La mia impressione è stata davvero tremenda, nel senso che già mi immaginavo l’odio e la divisione, ma non mi sarei mai aspettato di quel livello: da un lato c’è la grande paura del popolo israeliano, che per questo si lascia portare da chi lo governa su strade E di guerra, di violenza e di nessun rispetto per il popolo palestinese, per la paura dell’antisemitismo e di ritrovarsi ancora una volta disprezzati e ingiustamente afflitti perché ebrei; ma dall’altra parte c’è la rabbia che cresce nei palestinesi che si vedono, ogni giorno di più, privati di qualunque libertà e di qualunque possibilità di progettare e costruire per la propria famiglia, per la propria gente e ogni volta di più messi come in un angolo in cui non possono neanche reagire; un vero apartheid. Se non si vince questo odio, che nasce appunto dalla paura e dall’ingiustizia, non cambierà mai niente. E per i cristiani è ancora più difficile perché loro sono nel mezzo. Ma allo stesso tempo i cristiani sono quelli che testimoniano che è possibile una speranza e che si può vivere rispettando l’altro, accogliendolo e non avendone paura; e questo credo sia la grande testimonianza che viene da Cristo e che la Chiesa sta dando sia con i frati della Custodia, sia con il Patriarcato, anche nel dialogo che si è fatto sempre più stretto con tutte le altre comunità cristiane che sono presenti lì».
Quali impressioni riporta a casa dopo questi giorni così difficili?
«L’impressione tornando a casa è che bisogna pregare tanto e che non bisogna lasciarsi trascinare su strade di ideologia e intolleranza. Occorre riconoscere – come ha scritto papa Francesco nell’enciclica Fratelli tutti – che siamo fratelli perché siamo figli di un unico Dio, e che se noi non diamo questa testimonianza già qui e nel presente, ci facciamo corresponsabili di qualunque divisione porta a far prevalere la legge del più forte, perché nel mondo le ingiustizie non sono mai e solo responsabilità di un popolo su un altro, ma anche di tutti gli altri che restano indifferenti e che non aiutano a trovare strade di dialogo, ma anzi quasi fomentano per interessi propri le divisioni».
Quali realtà avete incontrato?
«Abbiamo vissuto l’incontro con tante persone e realtà della Chiesa che portano uno sguardo di speranza, di accoglienza e d’amore veramente impressionanti. È la testimonianza che con la fede in Cristo si può davvero vivere qualunque situazione. E io ho negli occhi e nel cuore queste persone e queste realtà, alcune di cui sapevo l’esistenza e l’opera, altre invece che non conoscevo. Realtà molto belle in cui si cerca di sostenere la vita delle famiglie, di far dialogare i ragazzi, i giovani, come per esempio le scuole del Patriarcato e della Custodia, che sono tantissime in tutta la Terra Santa. Sono luoghi di convivenza, in particolare fra cristiani e musulmani. Sono aperte anche agli ebrei, anche se gli ebrei non ci vanno, ma sono luoghi dove si impara a convivere, a capire che l’altro è uno come te e quindi si comunica questa vita nuova che per noi viene da Cristo. Infatti anche queste persone, palestinesi o italiani che sono lì a servizio della Chiesa, sono tutte persone che nella fede trovano la forza di rimanere pazientemente in dialogo con tutti e costruire per il bene di tutti».
Cosa vi ha detto il patriarca di Gerusalemme, cardinale Pizzaballa, nell’incontro che avete avuto con lui?
«Il patriarca ci ha fatto un quadro abbastanza realista della situazione, sottolineando la difficoltà in cui vive la Chiesa stessa, ma soprattutto in cui vivono il popolo degli ebrei di Israele, i cristiani di Israele e il popolo palestinese, perché si trovano a essere prigionieri di quegli schemi di paura e rabbia di cui parlavo prima».
Perché soprattutto in questo momento è importante la presenza della Chiesa in Terra Santa?
«La presenza della Chiesa è fondamentale e noi dobbiamo sostenerla in tutti i modi, perché se vanno via i cristiani non ci sarà più speranza davvero, e quei luoghi diventeranno luoghi che parlano di un passato, quando invece oggi vivono negli occhi e nelle parole delle persone che lì testimoniano che Cristo è presente. Il patriarca ci sottolineava anche questo: quanto è importante che i cristiani siano presenti in tutti i luoghi e che dialoghino aperti all’incontro con tutti. Questo atteggiamento sta dando molti frutti, infatti sia da parte di tanti israeliani, che di tanti palestinesi si cerca il dialogo proprio attraverso i cristiani, perché si capisce che sono gli unici che non agiscono per un interesse ma per una disponibilità, un amore senza interesse proprio. E poi impressiona la presenza della Chiesa nell’ambito educativo, nel sostegno al lavoro, alle famiglie, perché i cristiani possano rimanere lì. Anche questo ci ha fatto capire quanto sia importante sostenere questa presenza, soprattutto tenendola presente noi per primi e poi anche dal punto di vista economico. La Chiesa cattolica in Palestina dà da mangiare ogni giorno, in questo momento così difficile in cui la maggioranza delle famiglie non ha lavoro, a circa 60 mila persone. Anche a Gaza rappresenta l’unica realtà in cui c’è una possibilità di vita comune e di resistenza per i cristiani che sono lì. È impressionante pensare al compito che il cardinale Pizzaballa ha, perché il patriarcato è molto più grande di Israele e comprende anche la Giordania, Cipro… Tutto questo mondo, è un mondo che ci porta alle origini della fede, e che oggi vive con un’intensità che per tutti è un esempio da cercare, da riconoscere e sostenere».