Liberaci Signore dalle sciocche devozioni dei santi con la faccia triste». No, non si tratta di una provocazione da miscredente incallito, ma di una acuta e curiosa invocazione di Santa Teresa d’Avila. Un monito da tenere a mente ancora oggi, se si pensa a tante nostri modi devozionali, così spesso intrisi di accessoria malinconia. Da questo punto di vista, restano implacabili per noi cristiani le parole di Nietzsche: «Se la vostra fede vi rende beati, datevi da conoscere come beati! Per la vostra fede, le vostre facce sono sempre state più dannose delle nostre ragioni!». Senza dimenticare che lo stesso Gesù nutriva una certa allergia verso l’ipocrisia delle mestizie ascetiche (cfr Mt 6, 16). La prospettiva della gioia, dell’ilarità, se non dell’umorismo, rappresenta una chiave di lettura interessante per perlustrare le Scritture. La teologia del ‘900 ha spesso restituito, nei suoi interpreti più raffinati, una dimensione di “uomità” (per usare un neologismo di Luigi Santucci) al Cristo, immaginandolo uomo tra gli altri uomini, amante della buona compagnia e della risata (cfr. Mt 11, 19).
È una dimensione indagata, a modo suo, anche da Umberto Eco ne «Il nome della rosa», nel confronto dialettico tra Guglielmo da Baskerville e il venerabile Jorge, dove quest’ultimo rifiuta le idee di Guglielmo che faceva Gesù capace di ridere: «Il riso squassa il corpo, deforma i lineamenti del viso, rende l’uomo simile alla scimmia». Parliamo di sorrisi, perché proprio di un sorriso in particolare vogliamo raccontare: quello che la Vergine ha regalato a due suoi “poveri” figli. Prendiamo dalla storia del santuario della Beata Vergine del Rosario di Pompei il racconto di una vicenda realmente accaduta. In questo santuario, fin dalla sua fondazione, si offriva accoglienza alle orfanelle. Le ragazze cresciute all’ombra dello sguardo di Maria, giunte in età da marito, venivano accompagnate in chiesa e fatte sedere nei primi banchi durante l’officio delle funzioni.
In questo modo le suore speravano che qualche giovane, vedendole, le avrebbe chieste in moglie. Maritare un’orfanella, non era sempre facile, a volte i pregiudizi erano discriminanti. Ne conseguiva che le ragazze avvenenti trovavano presto una proposta di matrimonio, quelle più brutte no, finendo col rimanere a vita a servizio dell’orfanatrofio. Tra le orfanelle ve ne era una non particolarmente bella, ma di profonda dolcezza e pietà, che ormai le suore si erano rassegnate a non sposare più. La ragazza piangeva spesso e chiedeva in cuor suo alla Madonna, che le aveva fatto da madre per tutti quegli anni, di trovarle un buon uomo con cui poter formare una famiglia. Un giorno la storia della ragazza si incrociò con quella di un giovane di un paese vicino, che deluso dalla vita e, casualmente, di passaggio a Pompei, decise di entrare nel santuario. Stanco dei tanti fallimenti, l’uomo stava inginocchiato sotto l’altare della Vergine, chiedendo di poter finalmente incontrare una giovane donna con cui sposarsi. In quel preciso momento entrarono in chiesa le ragazze dell’orfanatrofio e subito il quadro della Madonna incominciò a sorridere al giovane che, pensando di avere le traveggole, si stropicciò forte gli occhi. Ma guardando e riguardando bene l’effige, vedeva che quel sorriso si faceva sempre più evidente e chiaro. Stentava a credere ai suoi occhi! Pensò persino di essere vittima di un’allucinazione. La Madonna gli stava sorridendo e non accennava a smettere. Credendo allora di perdere il lume della ragione, iniziò a guardarsi intorno smarrito, come a cercare un appiglio che lo riportasse alla realtà. Fu allora che, in un attimo, scorse tra le orfanelle un volto altrettanto esterrefatto che fissava in alto, era quello della ragazza, che aveva gettato distrattamente lo sguardo sullo stesso quadro, riavendone indietro dalla Mamma celeste un identico e dolcissimo sorriso. In un baleno, al ragazzo, fu tutto chiaro.