Una serata di forte impatto emotivo e di profonda riflessione, quella svoltasi il 28 febbraio presso il centro La Calamita di Fucecchio, nell’ambito del ciclo «La Chiesa di dentro» organizzato dalla Caritas diocesana. Al centro del dibattito, il tema scottante della condizione carceraria in Italia, affrontato con lucidità e passione dall’arcivescovo di Firenze, monsignor Gherardo Gambelli. «Il carcere come discarica sociale non può essere accettato», ha ammonito il presule, invocando un cambio di paradigma nel sistema penitenziario.
Un silenzio carico di attenzione ha accolto, nella serata di venerdì 28 febbraio, le parole accorate di monsignor Gherardo Gambelli, ospite del ciclo “La Chiesa di dentro” promosso da Caritas San Miniato. Al centro “La Calamita” di Fucecchio, il tema della serata, “Emergenza carceri, un tunnel senza uscita”, ha offerto lo spunto per una riflessione che ha toccato nel profondo i presenti. A moderare l’incontro, la giornalista e scrittrice Mimma Scigliano, che ha guidato il dibattito, facendo emergere le questioni cruciali e stimolando il confronto con il pubblico. Un tema che interpella la coscienza collettiva «Entrare in carcere significa spesso varcare la soglia dell’invisibilità sociale» ha esordito monsignor Gambelli, sottolineando come le carceri italiane siano popolate in gran parte da detenuti con pene inferiori ai quattro anni, reclusi non per la gravità del reato, ma per la loro condizione di povertà: «Un terzo dei detenuti potrebbe scontare la pena ai domiciliari, ma non ha un domicilio. Questo ci deve interrogare profondamente». L’arcivescovo ha poi messo in evidenza il paradosso della recidiva: «Se l’80% dei detenuti torna in carcere, vuol dire che il sistema non funziona. Non c’è U rieducazione, non c’è reinserimento, non c’è speranza». Parole dure, che hanno suscitato un moto di consapevolezza tra i presenti.
CARCERE: UNA REALTÀ CHE AMPLIFICA IL DISAGIO
Tra i tanti temi affrontati, il ruolo della fede nelle carceri ha assunto un’importanza centrale. «Quando uno è in carcere è pieno di rabbia, difficilmente ascolta una predica. Ma la Bibbia, le storie di redenzione, possono parlare alla coscienza e accendere una scintilla» ha raccontato il presule, condividendo esperienze personali vissute accanto ai detenuti. Ha ricordato ad esempio, con emozione, la storia di un pizzaiolo egiziano finito in carcere per aver spacciato durante la pandemia: «Ha avuto una seconda possibilità grazie alla Caritas, e oggi lavora con passione in un ristorante. Queste sono le storie che danno speranza». Un passaggio particolarmente toccante è stato quello dedicato al suicidio in carcere, una piaga che si aggrava di anno in anno. «Il dato più inquietante? I suicidi avvengono soprattutto tra chi è vicino alla scarcerazione. Questo ci dice quanto il fuori, possa essere ancora più spaventoso del dentro» ha osservato monsignor Gambelli, puntando il dito sulla mancanza di percorsi reali di reinserimento sociale.
LA NECESSITÀ DI UN NUOVO PARADIGMA DI GIUSTIZIA
Il dibattito si è poi aperto alle domande del pubblico, che ha sollevato temi scottanti: dalla giustizia riparativa, ancora troppo poco praticata in Italia, al dialogo interreligioso tra detenuti. «La fede può essere un ponte: cristiani, musulmani, ortodossi, tutti in carcere cercano un senso, una speranza» ha sottolineato l’arcivescovo, raccontando la toccante esperienza di un detenuto musulmano che, per dimostrare la sua gratitudine, gli donò una merendina durante il Ramadan: «Era il suo modo per condividere con me quel momento sacro». Un’altra domanda del pubblico ha riguardato il difficile equilibrio tra la denuncia delle ingiustizie e la necessità di mantenere un dialogo con l’amministrazione carceraria. «Il cappellano è lì per tutti, detenuti e agenti. Alcuni agenti vivono il loro lavoro come una missione, altri purtroppo no. Ma la nostra presenza deve essere quella di una voce profetica, che non si limita a denunciare, ma che costruisce alternative concrete» ha ribadito monsignor Gambelli.
IL CARCERE SPECCHIO DELLA SOCIETÀ
Nel corso della serata, il vescovo ha insistito sulla responsabilità collettiva: «Dobbiamo chiederci che società vogliamo costruire. Se continuiamo a considerare il carcere una discarica sociale, prima o poi saremo noi a pagarne il prezzo». Le testimonianze raccolte dal pubblico hanno confermato la gravità della situazione: dalle strutture fatiscenti alle difficoltà degli ex detenuti nel trovare un lavoro, fino alla violenza istituzionale che spesso si respira dentro le mura penitenziarie. «Una parrocchia fiorentina ha fatto i dolci per la fine del Ramadan in carcere. Un piccolo gesto che ha avuto un grande impatto. Questo è il genere di prossimità che può fare la differenza», ha raccontato ancora Gambelli, evidenziando l’importanza di un impegno comunitario.
IL MESSAGGIO FINALE: IL DONO DELLA SPERANZA
La serata si è chiusa con una riflessione profonda sulla libertà: «La libertà va sempre insieme alla responsabilità. Non c’è libertà senza giustizia, senza uguaglianza. Come diceva Martin Luther King: “Fino a che nel mondo c’è una persona oppressa, anch’io sono oppresso”». A suggellare l’incontro, un’ultima storia emblematica raccontata dall’arcivescovo: quella degli undici cammelli, una parabola di giustizia e dono a cui Gambelli confessa di essere molto affezionato: un vecchio beduino, che aveva 11 cammelli, muore. I tre figli aprono il testamento dove è scritto che al primo figlio vanno la metà dei cammelli, al secondo vanno un quarto dei cammelli e all’ultimo un sesto. Il primo, che è anche il più prepotente, fa 11 diviso 2 e ne prende 6. Gli altri due s’infuriano. Avviene una rissa. A un certo punto passa di lì un altro beduino, e ascoltato il problema, dice ai fratelli in lite: «Vi aiuto io a trovare la soluzione… vi regalo un cammello, poi con calma me lo restituirete. Adesso c’erano 12 cammelli: 12 diviso 2 fa 6, 12 diviso 4 fa 3, 12 diviso 6 fa 2, 6 più 3 più 2 fa 11. Ciascuno aveva in questo modo preso la sua parte stabilita dal padre, e il beduino poté così riprendere il suo cammello e tornarsene a casa felice. «Perché la giustizia si realizzi, a volte è necessario che qualcuno faccia un passo avanti e doni qualcosa. E chi dona non perde mai niente». Il carcere ci lancia un monito a non restare indifferenti, ma a farci carico, come comunità, di una realtà che riguarda tutti.