Don Antonio Velotto, parroco di Lazzeretto e direttore dell’Ufficio per la pastorale della sanità della diocesi di San Miniato, riflettendo sul significato della 33ma Giornata del malato, sottolinea l’importanza di prendersi cura non solo delle sofferenze fisiche, ma anche delle “malattie spirituali” del nostro tempo
L’ 11 febbraio si celebra in tutto il mondo la 33ma Giornata mondiale del malato, istituita da san Giovanni Paolo II per sensibilizzare le comunità cristiane e la società intera sull’importanza dell’accompagnamento di chi soffre. In diocesi di San Miniato, la celebrazione si terrà domenica 16 febbraio presso il santuario Madre della Divina Grazia a San Romano, con una Messa solenne presieduta dal vescovo Giovanni. Per questa occasione, don Antonio Velotto ci offre una riflessione profonda sul significato di questa giornata, sulla speranza cristiana e sul ruolo della Chiesa accanto ai malati e a chi se ne prende cura.
Qual è il significato della Giornata diocesana del malato e come si inserisce nel cammino della Chiesa in questo Anno Giubilare? Quali temi particolari vengono messi in evidenza quest’anno?
«Il tema della 33ma Giornata mondiale del malato, che si celebra l’11 febbraio (memoria liturgica della Beata Maria Vergine di Lourdes – ndr), è «La speranza non delude» (Rm 5,5), speranza che ci rende forti nella tribolazione. Nel messaggio diramato in occasione di questa ricorrenza, papa Francesco sottolinea l’importanza della speranza come fonte di forza nelle difficoltà, invitando a riflettere sulla presenza di Dio vicino a chi soffre attraverso l’incontro, il dono e la condivisione. Possiamo dire che mai come quest’anno il tema della Giornata del malato sia particolarmente favorevole, perché abbraccia l’anno giubilare e la sua tematica guida: «pellegrini di speranza». In occasione di questa giornata, sono previsti eventi e celebrazioni in diverse diocesi italiane, e come di consueto anche a San Miniato, con messe e momenti di preghiera per i malati e coloro che se ne prendono cura».
Lei, come sacerdote, è spesso vicino a persone che affrontano la malattia. Cosa le insegna questa esperienza e quale dono spirituale riceve dal contatto con i malati?
«Per i cristiani, prendersi cura dei malati è fondamentale perché è un atto di amore e compassione, che riflette l’insegnamento di Gesù, che ha sempre dimostrato una particolare attenzione verso i malati e i sofferenti, guarendoli e confortandoli, e ha invitato i suoi discepoli a fare lo stesso (cfr. Matteo 25,36). Nella mia esperienza la visita ai malati è un modo per vivere la carità cristiana e testimoniare la presenza di Dio nel mondo, offrendo speranza e sollievo a chi sta male e ai lori familiari. Ed è proprio vero, si riceve più di quanto si dà: dai malati ho imparato io stesso il comandamento dell’amore verso il prossimo. Ho assistito a malati che sul letto, sofferenti, pregavano e nutrivano gli altri tutt’attorno di speranza verso il futuro. Altri ancora che mi hanno dimostrato cosa vuol dire essere nelle braccia di Cristo: guidati dalla fede, il loro spirito sembrava invincibile e quasi distaccato dalle sofferenze del corpo».
A questo proposito: c’è una storia di malattia vissuta con fede che l’ha particolarmente colpita e che può condividere con noi?
«Tra le tante, rimane nel mio cuore la storia di una nostra parrocchiana di Lazzeretto, la cara Assunta, che tutti chiamavamo “Assuntina” per la corporatura minuta. Una donna che viveva la malattia addirittura come una spinta alla carità. Non volendo rinunciare ad aiutare gli altri, guidata da una speranza continua nella vita e da una fede incrollabile, in mezzo a tante sofferenze corporali ha continuato a lavorare nei campi e a darsi da fare per tante persone in difficoltà».
In un mondo in cui la sofferenza è spesso vissuta con solitudine e paura, quale messaggio vuole trasmettere la Chiesa a chi affronta la malattia e a chi si prende cura dei malati?
C’è una dimensione che sta emergendo sempre di più e che anche noi come sacerdoti dobbiamo imparare a riconoscere. Si tratta di malattie che spesso stanno fuori dagli ospedali e dalle case di cura e quindi sono più difficili da riconoscersi. Si tratta delle “malattie spirituali”, delle ferite interiori e morali che colpiscono la nostra relazione con Dio, con gli altri e con noi stessi. Queste “malattie” non sono visibili come quelle fisiche, ma sono altrettanto debilitanti. Vorrei che la Giornata del malato di quest’anno fosse nel solco della speranza di Cristo, che con la grazia e il perdono ci mette a disposizione gli strumenti di guarigione, ma anche nel solco della consapevolezza di quello che tutti noi – operatori medici, personale sanitario, volontari e sacerdoti – dobbiamo e possiamo fare per queste malattie spirituali del nostro tempo: isolamento, individualismo, vita frenetica e priva di riflessione, superficialità e perdita di senso. Prendersi cura di questi mali implica il lavoro interiore di riconoscere e guarire le nostre ferite spirituali, cercando di crescere nella fede, nella carità e nell’umiltà, proprio per arrivare alla riconciliazione con Dio».