In occasione della III domenica d’Avvento, che propone come vangelo il brano di Luca 3, 10-18, ci addentriamo in un dialogo immaginario con Giovanni Battista, figura profetica dal carattere cristallino e intransigente. Tra sarcasmo, polemiche e lampi di tenerezza, il precursore offre riflessioni sulla giustizia, la conversione e il ruolo dell’uomo nel preparare la via al Signore. Ne emerge un Giovanni umano e profondo, che con il suo linguaggio apocalittico scuote ancora oggi le coscienze.
Ehm… le confesso una cosa: l’idea di intervistarla mi mette un po’ a disagio. Dicono che sia… facilmente collerico.
«Ah, bravo! È già una buona premessa per farmi innervosire… Sia onesto: pensa che il mio ruolo fosse quello di far piacere agli uomini? No, io grido quello che va detto. E la verità, da che mondo è mondo, taglia come una spada e brucia come il fuoco. Se dire come stanno le cose significa avere un caratteraccio, allora sì, sono colpevole. Se le manca il coraggio, forse è meglio che si occupi di interviste meno impegnative».
Ha ragione, come non detto… Cominciamo subito: descriva se stesso in poche parole…
«Una voce. Solo questo: una voce che grida nel deserto. Nulla più. Non sono il Messia, non sono Elia tornato dal cielo. Sono un uomo mandato per preparare la strada, per dirvi: “Sveglia, alzatevi e smettete di dormire”».
La tradizione popolare ha sempre detto “San Giovanni ’un vuole inganni”…
«Finalmente una cosa sensata. Sì, non tollero l’ipocrisia. È peggio del peccato, perché maschera il male con una facciata di bontà. Ai miei tempi erano i farisei a incarnare l’ipocrisia, oggi sono ovunque: nei politici, nei personaggi dello star system, persino in chi si dice “spirituale” ma calpesta il prossimo. Però… dica la verità: la sua domanda, messa in quel modo, mi fa sospettare che lei non abbia proprio idea da dove nasca questo modo di dire».
Ecco io… no, non lo so. Qual è la sua origine?
«Firenze! La città che mi celebra come patrono. Per tre secoli, dal duecento al cinquecento, Firenze ha coniato il fiorino d’oro che recava incisa sul rovescio la mia immagine. All’epoca però circolavano anche diversi mascalzoni che, in danno alla Repubblica, battevano di contrabbando la moneta con l’anima interna in metallo grezzo che rivestivano poi d’oro. Per evitare truffe esistevano degli ufficiali che verificavano il peso di ogni singolo fiorino; i controlli erano costanti e le pene contro i falsari erano severissime. La mia immagine effigiata sopra, era in un certo senso garante dell’autenticità e del valore della moneta, da qui è derivato il modo di dire ancora oggi popolare di “San Giovanni ’un vuole inganni”».
Non si finisce mai d’imparare… A proposito di ipocrisia: lei ha denunciato Erode. Se fosse un predicatore di oggi, chi sarebbero i suoi bersagli?
«Mi piace la parola “bersagli” ghigna -. Non è forse vero che il profeta è come una freccia che colpisce nel segno? Sì, oggi avrei molto lavoro: chi approfitta del potere per opprimere, chi accumula ricchezze mentre il popolo muore di fame… ma, come ai miei tempi, comincerei E prima a togliermi qualche sassolino dai sandali saettando contro coloro che si nascondono dietro parole vuote e una facciata di religiosità per giustificare le ingiustizie».
Nel vangelo che si legge in questa III domenica di Avvento (Lc 3, 10-18), la gente le chiede: “Che cosa dobbiamo fare?” Cosa direbbe loro oggi?
«Le stesse cose di allora: condividete quello che avete, non accumulate per il superfluo, smettete di sfruttare gli altri. Sono parole semplici, ma scomode. E poi, non dimenticate il cuore: il battesimo che porto è solo il principio. Il vero cambiamento viene con il fuoco dello Spirito».
Gesù l’ha definita “il più grande fra i nati di donna”, aggiungendo però che “il più piccolo nel Regno dei cieli” è ancor più grande. Cosa significa questo per lei?
«È semplice: la grandezza umana non conta nulla davanti al Regno. Io ho fatto la mia parte, ma tutto ciò che sono è polvere rispetto alla gloria di Dio. Non c’è posto per l’orgoglio quando sei davanti a Lui».
Lei e suo cugino siete praticamente coetanei. Vi vedevate spesso da piccoli?
«Non come crede. Siamo cresciuti in posti diversi, ma sapevamo chi fossimo l’uno per l’altro. Quando lo incontrai al Giordano, però, capii tutto: lì non c’era solo mio cugino, ma il Figlio di Dio. Guardi… un lampo negli occhi e il cuore che sussulta, perché davanti a Lui non sei altro che polvere».
Perché Gesù si è fatto battezzare da lei?
«Oh, che domanda! Le assicuro che io non volevo. Ma Lui mi guardò con una serenità che faceva tremare. Mi disse che dovevamo “adempiere ogni giustizia”. Capii che si stava calando in mezzo agli uomini, condividendo la loro condizione per redimerli. Ho tremato mentre lo battezzavo».
Parliamo d’arte… Cosa ne pensa del modo in cui gli artisti da sempre la raffigurano?
«Sempre ingrugnito, eh? Gli artisti non mi dipingono mai col sorriso. E badi bene, è una costante che ritrovo anche nel cinema e nelle fiction: quando appare Giovanni il Battista, appare l’Apocalisse… Ma capisco: porto il peso della profezia. Quel bastone e quello sguardo severo servono a ricordare che il tempo stringe. Tuttavia, gradirei che gli artisti e i registi mi vedessero anche come un uomo di speranza, perché tale sono. C’è un tratto di insospettata tenerezza nel mio temperamento, sa!?».
Conosce il suo ritratto a figura intera conservato al Museo diocesano di San Miniato?
«Idem con patate! Sì, conosco quella tavola trecentesca, proviene dalla chiesa di San Domenico dove stavano i domenicani: volto allungato, quasi cavallino, aspetto serioso… ma guardi che io ero un uomo che bruciava d’amore per la Verità. Mostratemi così se ci riuscite».
Se potesse fare una domanda a se stesso, cosa chiederebbe? (Ride fragorosamente)
«Questo mi ricorda il tormentone di un celebre conduttore televisivo: “Si faccia una domanda, si dia una risposta”… Va bene, va bene… voglio stare al suo gioco: “Giovanni, perché ti ostini a parlare se nessuno ti ascolta?”. Risposta: “Perché non si grida per essere ascoltati, ma per essere fedeli alla missione. La verità va detta, anche se il mondo la rifiuta”».
Parliamo di dieta. Com’è il miele selvatico? E che sapore hanno le locuste?
«Ah, ecco l’umanità di oggi: si interessa al menù più che alla vita eterna. Il miele è dolce, le locuste croccanti. Ma ciò che mi nutriva davvero era la Parola di Dio. Soddisfatto?… Voi siete più interessati al cibo per il corpo, e intanto l’anima muore di fame».
Ok, non si scaldi, non era mia intenzione provocarla… Le faccio un’ultima domanda: che messaggio vuole lasciare a chi l’ascolta oggi?
«Ve lo dico con le parole di sempre: preparate la via del Signore. Non c’è tempo per indugiare. Convertitevi, cambiate vita, smettete di rimandare. E ricordate: il Regno di Dio è vicino, ma non vi entrerete senza giustizia e misericordia».
Un capolavoro trecentesco al museo diocesano
Il San Giovanni Battista conservato al Museo diocesano d’arte sacra di San Miniato è una tempera su tavola che si distingue per il fondo dorato e il formato centinato a sesto acuto, tipico dell’arte trecentesca. Con un’altezza di 125 cm e una larghezza di 46 cm, l’opera, seppur di dimensioni ridotte, emana una forza spirituale straordinaria. L’iconografia del Battista è rigorosa: il volto severo, lo sguardo penetrante e la gestualità composta, rivelano la profonda serietà del profeta. L’indice della mano destra alzato, quasi in atto di ammonire, sembra rivolgersi a un pubblico universale, ribadendo la sua missione di precursore del Messia. Dal punto di vista fisiognomico, il volto del santo è disegnato con linee nette e dure, che ne accentuano il rigore morale e la determinazione. Il naso prominente, lo sguardo fisso e la barba accuratamente tratteggiata creano una figura tagliente, simbolo dell’incorruttibilità della sua missione. È l’immagine di un uomo adamantino, che non conosce compromessi. Il dipinto, nel 1968, è stato attribuito da Federico Zeri al «Maestro del Cristo docente», mentre Evelyn Borsook lo aveva precedentemente associato al «Maestro Francesco, identificato con Francesco di Ser Niccolò Mediceo, artista operante in ambito fiorentino. Questa oscillazione tra attribuzioni riflette la complessità di un’opera che si muove tra influenze fiorentine e pisane, con richiami al romanico catalano e al gotico italiano. Originariamente parte di un polittico, la tavola era probabilmente collocata alla destra del pannello centrale raffigurante la Vergine con il Bambino. Accanto al Battista si trovava una tavola raffigurante Sant’Antonio Abate (anch’essa conservata al Museo diocesano), a indicare un preciso programma iconografico volto a esaltare le virtù dell’ascesi e della predicazione. La chiesa dei Ss. Iacopo e Lucia, luogo d’origine del polittico, subì numerosi interventi tra il XVII e il XVIII secolo, durante i quali molte opere furono rimosse, confiscate o vendute. Questa dispersione ci priva della visione completa del polittico, ma il confronto con esempi affini permette di ipotizzarne la struttura originaria. La figura del Battista si staglia su un fondo oro, simbolo dell’eternità e della gloria divina. Il disegno “scolpito” che profila il santo, richiama l’arte romanica, ma la composizione tradisce anche l’influenza del gotico, evidente nella delicatezza dei dettagli decorativi del manto e nella resa dei capelli ondulati. La tavola non è solo un’opera d’arte, ma anche una finestra su una visione del mondo profondamente etica. Il Battista ci guarda attraverso i secoli con la stessa intensità con cui ammoniva i suoi contemporanei. La sua figura severa sembra porci una domanda: Siamo pronti a ricevere la verità senza compromessi? In un’epoca come il XIV secolo, segnata da turbolenze politiche e religiose, un’opera come questa, in una città relativamente piccola come San Miniato, rappresentava un faro di spiritualità, un richiamo al rigore morale e alla preparazione per la venuta del Salvatore.