Verso il Giubileo del 2025

Un’occasione in più per tornare a Dio

di don Marco Billeri, Canonista e Cerimoniere vescovile

La vigilia di Natale Papa Francesco aprirà la Porta Santa della basilica di San Pietro in Vaticano e darà inizio al giubileo del 2025. Questo viene spesso ricordato come «ordinario» a motivo del celebrarsi con cadenza temporale regolare, oggigiorno di venticinque anni; il successivo sarà nel 2050. Talvolta i Papi avvertono la necessità di celebrare particolari anni giubilari: questi, inserendosi in mezzo a quelli con cadenza venticinquennale, sono chiamati «straordinari». Di quest’ultimo tipo, sarà quello del 2033, a duemila anni dalla passione, morte e resurrezione del Signore. Ordinario o straordinario è dunque riferito unicamente alla cadenza temporale.

Il giubileo è un evento di Grazia che si affaccia presto nella storia della salvezza; ne è prova l’istituzione normata dell’Antico Testamento, nel Pentateuco, nella Legge di Mosè. Cadeva ogni cinquant’anni e consentiva alle tribù dei discendenti dei figli di Giacobbe di rientrare in possesso delle terre che avevano perso a motivo della miseria o povertà come pure consentiva a chi era stato venduto come schiavo, per pagare un debito, di venir liberato. Si tratta di un condono in base al quale viene restituito ad ognuno ciò che gli è stato inizialmente donato da Dio: la terra e la libertà. Ciò che questi segni veterotestamentari ancora oggi raccontano è l’eterna volontà salvifica di Dio nei nostri confronti: egli non vuole che l’uomo, fatto figlio e quindi libero col Battesimo, destinato alla Terra del Cielo (la Gerusalemme celeste), rimanga prigioniero, schiavo, del male che lo priva della libertà e del Paradiso. Il giubileo dice anche l’argine temporale che Dio pone alla privazione e alla schiavitù permettendo di vivere protesi nell’attesa fiduciosa della liberazione.

Bisognosi di liberazione lo si è quando la Grazia che il Battesimo ci ha donato viene logorata col peccato che commettiamo, dal più piccolo al più grave. L’abitudine al peccato, la gravità e spesso la non curanza delle conseguenze, arrivano a rompere quell’innesto che abbiamo con Dio, di cui parla Gesù nell’ultima cena con l’immagine del tralcio unito alla vite, innesto che fa scorrere in noi la vita divina.

Poiché la morte corporale fissa eternamente le scelte fatte quando si era nella condizione del libero arbitrio, morire mentre si è lontani da Dio produce una lontananza irrimediabile che noi chiamiamo in diversi modi, quali dannazione, inferno o pena eterna. Quest’ultimo nome esprime bene che ciò che si paga non ha mai fine: sofferenza e dolore senza confini.

Finché si è in vita, a rimedio del peccato il Signore ha donato la penitenza, le opere di carità e la confessione. Quando è grave, la certezza del perdono si ha solo con la confessione sacramentale, fatta accusando davanti al sacerdote tutti i peccati di cui si ha memoria dall’ultima confessione, assieme al pentimento per il male fatto e al proposito di non peccare più in avvenire. Proprio queste ultime due condizioni, indispensabili per ogni autentica confessione, possono divenire l’ostacolo che ci autoescludono dalla valida assoluzione sacramentale. Con essa, per usare le parole del Maestro, l’uomo recupera l’innesto nella vita Divina e la salvezza torna ad abitare quella casa. Una sciocca concezione di Redenzione fa pensare a taluni che non occorra chiedere perdono e allontanarsi dal male perché il Signore ha già salvato tutti; questi dimenticano che la Redenzione è offerta e non imposta all’uomo, che deve liberamente e fattivamente decidere di aderirvi.

Dalla vita quotidiana si può apprendere molte altre verità che riguardano il Cielo. Per esempio, quando facciamo un danno ad un’altra persona, sappiamo che se questa ci perdona non vi è più offesa e torna ad esserci una condizione di pace e dialogo tra noi ma la cosa danneggiata rimane tale. La giustizia chiede che ciò che si è danneggiato sia rimesso nello stato precedente. Ci è evidente che quando non si tratta di oggetti la riparazione è più difficile e sovente si ricorre a quantificare in altro modo il danno. Fuor di metafora, quando commettiamo il male, oltre alla necessità di esser perdonati, abbiamo bisogno di riparare. Tale azione dice anche quanto sia vero il nostro pentimento.

Se il peccato danneggia chi lo commette, l’altro, la Chiesa, il creato e il rapporto con Dio, è chiaro che anche dopo l’assoluzione sacramentale resta qualcosa che io devo restituire, riparare. Questa espiazione la chiamiamo pena temporale, in opposizione a quella eterna, perché questa ha un limite e una volta raggiunto fa tornare nella condizione precedente al perturbamento. Se al momento della morte corporale, non si è in grave peccato ma non si è rimediato a tutto il male commesso, si accede al Purgatorio, dove l’anima sconta quanto deve prima di entrare in Paradiso.

Dal tesoro dei meriti della Passione del Signore, di Maria Santissima e degli altri Santi, la Chiesa amministra anche uno speciale condono perché non si debba più scontare la restituzione dovuta. Questo condono è chiamato indulgenza; quando è totale si dice plenaria, altrimenti parziale. Sono molti i modi con cui ogni giorno, ogni anno, si può accedere all’indulgenza. Ognuna può essere applicata a se stessi o a un’anima del Purgatorio. Nell’anno del giubileo, le occasioni di accesso al perdono e all’indulgenza vengono aumentate, facilitando la restaurazione della Grazia persa.

Ecco cos’è il giubileo. Un’occasione che la Chiesa offre ai suoi figli per chiedere e ottenere il perdono (specie con la confessione e l’assoluzione sacramentale) e chiedere e ottenere che sia condonata la pena temporale dovuta al male commesso (indulgenza). Ogni giubileo diviene così eccezionale in sé stesso, perché restituisce all’uomo quella dignità che il peccato gli ha tolto e lo rende nuovamente cittadino del Cielo. Esso è capace di riaccende in ogni cristiano e ogni altro uomo di buona volontà il desiderio di vivere più strettamente con Dio e partecipare così della Sua vita beata.