Noto per il suo messaggio scomodo e la vita travagliata, Geremia è il protagonista della prima di una serie di «interviste impossibili» fatte a personaggi biblici legati alle letture dell’Avvento. Dalle sue esperienze di persecuzione e celibato al simbolismo dietro le sue parole di speranza, il profeta ci offre una prospettiva che risuona ancora nei nostri tempi.
Come la devo chiamare? Geremia? Profeta? Figlio del sacerdote Helkia? Confesso che sono un po’ emozionato… non ho mai intervistato un profeta!
«Può chiamarmi Geremia va benissimo – sorride-. Quanto ai titoli, non gli ho mai dato troppo peso. Alcuni mi chiamavano “profeta”, altri, meno gentilmente, “uomo di disgrazie”. C’era chi mi considerava una spina nel fianco e chi, forse, un segno vivente di Dio. Il mio nome in ebraico significa “Dio innalza”, ma a volte mi sembrava che gli uomini facessero esattamente il contrario! Comunque, – si fa serio- sono il figlio di Helkia, sì, un sacerdote di Anatot, modesto villaggio alle porte di Gerusalemme. Ma il mio compito, come profeta, mi ha portato lontano dalla tradizione sacerdotale: Dio mi chiamò a un’opera diversa, quella di denunciare il peccato e annunciare il rinnovamento. Non pensi che, per questo, mi considerassero un eroe. Molti mi vedevano come un disturbatore o un pessimista, soprattutto quando predicavo contro l’idolatria e l’arroganza dei potenti. Non si preoccupi per la sua emozione sorride affabile-, risponderò con piacere alle sue domande. Dopotutto, se Dio ha voluto che fossi profeta, posso certamente rispondere a un’intervista!»
La sua missione era contraria alle aspettative del suo tempo. Come ha vissuto il portare un messaggio così scomodo?
«Essere profeta significa portare un messaggio non tuo, ma di Dio. Ho parlato contro l’idolatria, l’ingiustizia e le false certezze del Tempio, ben sapendo che ciò avrebbe attirato ostilità. La mia vita non è stata facile: fui imprigionato, minacciato e perfino condannato a morte. Tuttavia, sentivo il messaggio di Dio come un fuoco dentro di me, impossibile da trattenere. Non potevo sottrarmi a ciò che mi era stato affidato, anche se spesso pregavo Dio di liberarmi da questo compito (Ger 20, 9-10)».
Nel tempo, il suo nome è diventato sinonimo di “piagnisteo” (geremiade). Cosa ne pensa?
«Trovo ironico che il mio nome sia associato a un discorso lamentoso. Le mie parole non erano lamenti, ma appelli accorati al ravvedimento e alla giustizia. Gli uomini fraintendono sempre ciò che non vogliono ascoltare. Forse questo termine che, in qualche modo, mi chiama in causa, riflette più il rifiuto umano verso il confronto con la verità che il mio carattere. Dopotutto, il messaggio profetico è difficile da accettare per chiunque perché spezza le illusioni».
Quando ha scritto Ger 33,14-16, il brano che leggeremo nelle nostre chiese questa domenica, a chi pensava come il «germoglio giusto»?
«In quel testo parlavo di un futuro in cui le promesse di Dio per Davide sarebbero state compiute. Non immaginavo un volto preciso, ma descrivevo una figura che avrebbe incarnato giustizia, pace e fedeltà. Era un simbolo della speranza che Dio non abbandona il suo popolo, anche nei momenti più bui. Nei secoli, molti hanno visto in queste parole un riferimento al Messia, e credo che non siano lontani dal vero».
Nell’iconografia lei viene rappresentato spesso anziano, assorto, con simboli di calamità, esattamente come l’ha immortalata il pittore Anton Domenico Bamberini nel nostro bellissimo santuario del Ss.Crocifisso a San Miniato. Si riconosce in queste immagini?
«Mi diverte un po’ essere sempre raffigurato come anziano e cupo sorride-. La mia vita non fu breve, ma cominciai la missione da giovane. I simboli come la pentola bollente o il bastone di ferro riflettono aspetti della mia predicazione, ma io mi sento più vicino al libro che porto: è la testimonianza del mio legame con Dio. Quanto al dipinto del Bamberini, trovo che esprima bene la mia introspezione. Se soddisfa voi, posso dire di approvarlo».
Lei ha scelto il celibato in una cultura, quella ebraica, che considerava il matrimonio una benedizione divina e un dovere verso la comunità. Si potrebbe dire che anche in questo è andato controcorrente. Come mai questa scelta? Non le pesava?
«Ah, vedo che ha colto il punto! In effetti, nella mia cultura sposarsi e avere figli era un segno della benedizione di Dio e un modo per trasmettere la fede e le tradizioni. Ma Dio mi chiese qualcosa di diverso: il mio celibato era un segno profetico, rappresentava il giudizio imminente; era un modo per mostrare che i tempi stavano per cambiare, che non c’era spazio per le false sicurezze, nemmeno quelle legate alla famiglia. E comunque, non crediate che non ci fossero delle rinunce – sogghigna-. Ma, detto tra noi, avete mai provato a trovare una moglie dicendo: “Ah, dimenticavo, Dio mi ha incaricato di annunciare la rovina di Gerusalemme e di denunciare i peccati del popolo”? Non esattamente il miglior biglietto da visita… Forse il mio celibato era l’unico futuro realistico!».
Cosa direbbe agli uomini del nostro tempo?
«Non confidate in idoli moderni: denaro, potere, apparenza. Cercate Dio con cuore sincero, perché solo in Lui c’è stabilità e speranza. Come dicevo allora, il male non ha l’ultima parola: il giudizio è un’occasione di rinnovamento, non di condanna definitiva».
Può lasciarci un messaggio di speranza?
«Non temete le prove del presente. Dio ha progetti di pace, non di sventura. Anche nel deserto, prepara per voi una strada nuova. CercateLo con tutto il cuore, e troverete un futuro pieno di speranza (Ger 29,11-13)».
Abbiamo finito. È soddisfatto di questa intervista?
«Direi che sono abbastanza soddisfatto, anche se per un profeta abituato a non essere ascoltato, già il fatto che lei abbia voluto intervistarmi è una piccola vittoria! Certo, se potessi scegliere, preferirei che la gente leggesse di più il mio libro, invece di preoccuparsi dei miei ritratti o delle “geremiadi”. Ma mi rendo conto che ogni epoca ha le sue priorità». Poi aggiunge con un sorriso amichevole: «In ogni caso, le prometto che, se mai ci sarà un’altra intervista, cercherò di non essere troppo “lamentoso”. E lei, mi raccomando, non eviti le domande difficili: a noi profeti piacciono le sfide!».
Avvento attraverso l’arte: Geremia, il pentolone e la profezia nella chiesa del Ss.Crocifisso a San Miniato
l tempo di Avvento ci invita a riscoprire alcune opere d’arte della nostra diocesi che s’impongono alla nostra attenzione per la loro bellezza e suggestione. Seguendo idealmente il filo delle letture offerte dalla liturgia nelle quattro domeniche che precedono il Natale, ci soffermiamo in questo numero su un’opera che richiama il profeta Geremia, protagonista della prima lettura di domenica 1° dicembre, inizio dell’anno liturgico C. Il brano in questione (Ger 33,14-16) rappresenta un annuncio messianico di straordinaria forza: «In quei giorni e in quel tempo farò germogliare per Davide un germoglio giusto, che eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra». Un esempio potente e suggestivo della raffigurazione di Geremia si trova nel ciclo di affreschi realizzato dal pittore fiorentino Anton Domenico Bamberini (1666-1741) nel santuario del Ss. Crocifisso a San Miniato. Geremia (circa 650 a.C. – 586 a.C.), figlio di Helkia della tribù di Beniamino, fu uno dei quattro grandi profeti veterotestamentari, tradizionalmente considerato autore sia dell’omonimo libro che del Libro delle Lamentazioni. Bamberini incastona la sua figura in uno dei quattro peducci della cupola, dove trovano spazio anche gli altri profeti maggiori – Isaia, Ezechiele e Daniele – che simboleggiano il valore universale della rivelazione divina e il dogma della preesistenza di Cristo all’incarnazione. Ognuno di essi regge un cartiglio con brani tratti dalle proprie profezie, anticipazioni dell’incarnazione, crocifissione e redenzione operata da Cristo.
Geremia è raffigurato secondo la consueta iconografia: un anziano dalla lunga barba, assorto e austero, intento alla scrittura. Tra i suoi attributi iconografici, oltre al libro, si notano le pietre che l’angelo regge nella mano, richiamo esplicito a un’antica tradizione secondo cui il profeta, in tarda età, sarebbe stato martirizzato proprio per lapidazione dai suoi connazionali, esasperati dalle I sue ammonizioni. Di particolare rilievo è il pentolone ribollente visibile in alto a destra, da cui si sprigionano fiamme e sbuffi di vapore: simbolo di disgrazie imminenti, è un chiaro riferimento alla visione di Geremia descritta nel primo capitolo del suo libro, dove la caldaia rovesciata evoca i pericoli incombenti su Israele. L’intera composizione è animata da un panneggio vivido e mosso, che si unisce agli effetti luministici sapientemente distribuiti per dare profondità e solennità alla scena.
Il ciclo pittorico che decora le pareti interne del Ss. Crocifisso può essere considerato una vera e propria “Bibbia per immagini”. Realizzato interamente a partire dal 1717 da Anton Domenico Bamberini, è incentrato sulla figura di Cristo ed è caratterizzato da un gusto smaccatamente scenografico e teatrale, capace di coinvolgere emotivamente i fedeli. L’intento era quello di rendere la narrazione biblica chiara e accessibile, accompagnando visivamente il pellegrino verso il miracoloso Crocifisso trecentesco di Castelvecchio, fulcro di tutto il santuario.
L’intero programma iconografico fu ispirato dal vescovo Giovanni Francesco Maria Poggi (1647 1719), fine teologo e padre Servita, il quale era consapevole del ruolo pedagogico dell’arte sacra nella ricerca della Verità. Poggi, uomo di profonda spiritualità e vicino al granduca Cosimo III de’ Medici, curò ogni dettaglio del progetto. Interessante è notare che Bamberini, inizialmente titubante all’idea di lavorare su ponteggi a così grandi altezze, superò presto le sue paure, incoraggiato dal fervore generale che animava il cantiere. Si tramandano anche racconti di eventi prodigiosi avvenuti durante i lavori, come operai scampati miracolosamente a cadute o incidenti, che contribuirono a creare un’aura di straordinarietà attorno a quest’impresa.