Voltaire sentenziava con malizia che «l’eloquenza sacra è come la spada di Carlo Magno: lunga e piatta». Occorre certo guardarsi dai nemici giurati del cristianesimo, ma è anche vero che costoro, seppur con modi sgarbati e feroce sagacia, talvolta c’azzeccano.
Confessiamolo allora: c’è spesso un problema drammatico di traduzione del linguaggio ecclesiale in forme comprensibili all’uomo della strada. Le parole di certi documenti del magistero hanno talora la solennità della scultura neoclassica, esprimono una bellezza razionale, misurata, apollinea, ma proprio per questo fredda e quindi sterile.
Potremmo anzi dire che un certo tipo di “ecclesialese” sta alla schiettezza delle parole del Vangelo come il candore della scultura neoclassica stava alle statue greche che voleva imitare, statue che però – senza gli artisti del ‘700 ne fossero consapevoli – erano coloratissime, proprio come coloratissime erano le parole di Gesù, che intingendo costantemente “il pennello” del suo discorrere in quella variopinta tavolozza che è la natura, ha avuto sempre la capacità di artigliare l’attenzione e la coscienza del suo “pubblico”.
Sono molteplici i segnali che documentano come la parola conosca ai nostri tempi – non solo nella Chiesa – una sua malattia da stadio terminale. Consapevoli di questo, i vescovi toscani si sono dedicati con sensibilità alla stesura di una lettera che avrà, ne siamo certi, una grande risonanza nel dibattito culturale italiano.
Si tratta de «La forza della parola», documento bello, appassionato, scritto con singolare competenza umanistica. La parola e i modi della comunicazione umana ne sono al centro. Il grande ispiratore è don Lorenzo Milani. Il suo magistero, le sue idee sulla lingua e sulla formazione umana si riflettono su tutta la struttura dello scritto: la parola che fa eguali e l’obbligo morale di restituirla ai poveri, il rischio di usarla come arma di “distrazione di massa”, ma anche la parola che incanta, accarezza e guarisce.
Un testo importante, apicale, che potrebbe davvero far scaturire una salutare riflessione sulla necessità di avviare una “raccolta differenziata” delle espressioni oggi in uso nelle nostre Chiese: “momento agapico”, “esercizio di prossimità”, “dimensione sponsale”, “cenacolo orante”… e si potrebbe continuare a lungo! Tutte locuzioni di quella specie di neo-lingua che è appunto l’ecclesialese, sorta nel mondo cattolico dopo il Concilio Vaticano II, e che risulta il più delle volte totalmente incomprensibile a chi è lontano dalla fede. Un parlarsi addosso che nasce, nel migliore dei casi, dal rifiutare la fatica di spiegare innanzitutto a se stessi le ragioni del credere. Era anche da sintomi come questo che T. S. Eliot intuiva che non era il mondo ad aver abbandonato la Chiesa, ma la Chiesa ad aver abbandonato il mondo, mentre un genio della teologia come il cardinal Yves Congar ironizzava sul fatto che «in Francia, nonostante oltre 30 mila prediche ogni domenica, c’è ancora fede». Il linguaggio di un Papa Francesco invece, che il documento richiama a più riprese, è rivoluzionario anche in questo senso, perché non decolla mai verso cieli mitici e mistici ma esprime la concretezza dell’«ospedale da campo», l’unico presidio davvero necessario per quella forma di malattia dell’anima che si esprime oggi con la corruzione della comunicazione umana.
Franz Kafka un giorno ebbe a scrivere che se il testo che stiamo leggendo «non ci colpisce come un pugno sul cranio, perché annoiarsi leggendolo? Ciò di cui abbiamo bisogno sono quei libri che ci perturbano profondamente, come la morte di qualcuno che amiamo. Un libro deve essere la piccozza che rompe il mare ghiacciato che è dentro di noi». Siamo sinceramente convinti che le 89 densissime pagine de “La forza della parole” siano esattamente quella piccozza, capace di sovvertire le indolenti geometrie del nostro quotidiano comunicare, a tutti i livelli.
Non resta dunque che leggere.