Dalla Diocesi

Don Luca Carloni saluta Ponsacco e arriva a Lari, al suo primo incarico come Parroco

di Francesco Fisoni

Don Luca Carloni, 33 anni, originario di Crespina, domenica 29 settembre farà il suo ingresso nelle parrocchie di Lari, Usigliano e Casciana Alta. Dopo le esperienze come vice parroco a Casciana Terme e a Ponsacco, questo è il suo primo incarico da parroco. Ascoltiamo dalle sue stesse parole i vissuti di questi giorni e il cammino di fede che lo ha condotto fin qui.

Don Luca, il 29 settembre farai il tuo ingresso ufficiale nell’Unità pastorale di Lari. È il tuo primo incarico da parroco. Come ti senti di fronte a questa nuova responsabilità e quali sono le tue aspettative?

«L’emozione è tanta, sento una grande voglia di mettermi in gioco, di provare a fare bene. Avverto il desiderio di dare tutto per queste comunità che mi sono affidate. Sicuramente sarà impegnativo, come ogni cosa che inizia, ma sento una grande gioia nel cuore».

Sei sacerdote da sette anni; quali sono stati finora i momenti più significativi del tuo cammino pastorale, e come questi anni ti hanno preparato per il ruolo di parroco?

«In questi anni ho fatto davvero tante esperienze pastorali che mi hanno portato ad acquisire con sempre maggiore consapevolezza il significato dell’essere in primis sacerdote e poi parroco. I momenti significativi sono molti, dalle esperienze vissute mettendomi in gioco con i ragazzi e con i giovani, fino al vivere diversi viaggi in luoghi di dolore e testimonianza che mi hanno fatto fare esperienze belle di crescita. Credo in sintesi che il fatto più significativo del mio cammino pastorale sia l’incontro con le persone: ho presente ogni singolo volto, sguardo, sorriso… questo riempie il mio cuore e mi dona il significato dell’essere prete con la voglia, adesso, mi rimettermi in discussione per questo nuovo incarico».

Essendo un prete giovane, qual è il tuo approccio nel dialogo con i giovani della comunità? Quali sono le sfide e le opportunità che vedi nell’essere un punto di riferimento spirituale per le nuove generazioni?

«Essere un prete giovane aiuta certamente a entrare in dialogo con i giovani, anche se non è poi così scontato, perché oggi le generazioni si succedono a un ritmo molto più veloce che in passato. Sicuramente il dato anagrafico mi obbliga a cercare D nuovi modi di comunicare con loro, mi aiuta a mettermi in gioco per loro e insieme a loro, a trovare nuove vie. Essere guida spirituale non è semplice. Occorre tessere con pazienza la relazione, creare fiducia. È dalla fiducia che, con l’aiuto dello Spirito Santo, si generano poi opportunità d’incontro e di guida spirituale. In questa dinamica tanto lavoro lo fa Gesù stesso, che attraverso la relazione e la testimonianza di una guida costruisce l’esperienza dei giovani. Mettersi al servizio dei giovani fa tanto bene anche a noi preti, perché i giovani sono esigenti, hanno sete di Gesù, sete di vita e cercano in noi una credibilità di Chiesa».

Negli ultimi anni grazie al progetto di Caritas “Le 4 del pomeriggio” hai accompagnato diversi di loro in luoghi di emarginazione e territori di frontiera, in Italia e all’estero. Sono i viaggi a cui accennavi prima. In che modo entrare in contatto con queste realtà ferite segna il tuo essere prete e cosa hai visto cambiare nei giovani dopo queste esperienze?

«Il progetto di Caritas ha connotato senz’altro il mio essere prete, perché mi ha portato a fare esperienze forti e significative. Credo non sia banale, né scontato in un giovane prete. Si è trattato di occasioni che hanno acuito la mia consapevolezza sul significato che ha spendere la propria vita per gli altri e per il vangelo. Soprattutto direi che mi hanno reso capace di una pastorale più efficace anche nella parrocchia e nelle realtà che vivo. Accompagnare giovani poi è sempre gratificante, perché vedi la bellezza di un dono di grazia che lavora nel loro cuore, e credo davvero che questo sia ciò che serve nelle loro vite e nel mondo»

Tu hai avuto una vocazione molto precoce; racconta tua mamma che già a 4 anni facevi il chierichetto e a 7 anni volevi addirittura che i tuoi genitori ti acquistassero un breviario in vista di entrare in Seminario. Che ricordi hai di quel periodo e in che modo la tua vocazione è maturata nel corso degli anni?

«Si, fin da piccolo ho sempre avuto il desiderio di diventare sacerdote; questi racconti di mia madre sono ancora vivi nella mia memoria. Da piccolo mi piaceva stare intorno all’altare. Ho ricordi belli della mia vita perché il mio voler diventare sacerdote mi ha sempre portato a essere attento ai bisogni degli altri, a essere in ascolto di ciò che mi circondava e a coltivare quella chiamata che il Signore aveva per me. La mia vocazione poi negli anni è maturata grazie all’incontro con persone significative che mi hanno sempre più convinto che quella del sacerdote è un vita bella. È così che ho deciso di mettermi in gioco, perché credo sia molto più bello rischiare la propria vita per ciò in cui si crede che stare seduti da una parte a puntare il dito dicendo di non sentirci parte di questa realtà. Ecco, credo invece che non ci sia niente di più bello che mettersi in discussione per crescere insieme alla realtà, spendersi perché questa si possa abitare, facendo si che il Signore ne diventi il centro».

Quali sono gli aspetti centrali della tua spiritualità e come cerchi di trasmetterli alle persone che guidi? Ci sono figure o esperienze che hanno particolarmente segnato il tuo cammino di fede?

«La mia spiritualità si fonda su una fede concreta che cerco di coniugare ogni giorno con la vita, gli incontri e le esperienze che faccio. Cerco di vivere quell’amore che mi tiene ancorato a Cristo. Non ho un pensiero fisso su come comunicare ciò che vivo; semplicemente, come diceva padre Pio, curo la mia relazione con Dio, al resto pensa Gesù. Figure che hanno segnato il mio cammino di fede ce ne sono state tante: sacerdoti, laici… Ci sono poi alcuni santi che sento molto vicini, mi accompagnano nel cammino di fede e mi fanno dire che ciascuno di noi ha davvero la possibilità di trovare la sua strada sul sentiero della fede, se arriva alla consapevolezza che attraverso un semplice “sì” è aperto il cammino di fede verso il Signore».

Nel salutare la comunità di Ponsacco che messaggio vorresti lasciare ai fedeli che hai accompagnato in questi anni? C’è qualcosa che porterai con te nel cuore da questa esperienza?

«Credo che quello che abbiamo vissuto in questi quattro anni insieme si ponga come segno indelebile nel mio cuore e nel cuore delle persone della comunità di Ponsacco. Sono arrivato nel 2020, con il covid… un periodo non facile. Ho cercato di mettermi subito a disposizione del progetto pastorale che il vescovo mi aveva chiesto. Ponsacco è una realtà grande, talvolta non è stato semplice raggiungere tutto e tutti, ma credo che quello che abbiamo provato a costruire insieme sia proprio il segno visibile di ciò che Ponsacco è chiamata a fare ed essere. Più che lasciare un messaggio vorrei dire a Ponsacco che solo costruendo la comunità si può arrivare a vivere un’esperienza di Chiesa autentica, fondata su un aspetto autentico di Cristo, fondata sull’umanità. Cosa porterò con me? Tante cose, perché qui ho ricevuto tanto, soprattutto ho ricevuto una gioia del cuore che ancora oggi è sprono a mettermi in gioco per la missione che la Chiesa mi indica; e quindi porto con me tanti volti, sguardi e sorrisi, tanta vita. In ognuno di questi volti riscopro continuamente la presenza di Cristo che si è fatto carne, è venuto ad abitare i nostri giorni, di un Dio che continua a dirmi: “Vai avanti!”, perché la strada da fare è ancora lunga ma un sacco di cose belle sono in serbo. E in queste riflessioni finali mi sia permesso di indirizzare un grazie grande a tutta la comunità di Ponsacco, e a tutta l’Unità pastorale – Gello, Treggiaia e Val di Cava –, perché insieme abbiamo vissuto davvero una bella esperienza di Chiesa».