La notizia era stata ufficializzata lo scorso venerdì 15 marzo: Michela Latini, 56 anni, di Santa Maria a Monte, è stata confermata presidente dell’Azione Cattolica diocesana per il triennio 2024- 2027. Monsignor Giovanni Paccosi le ha rinnovato l’incarico in virtù della disponibilità, della sensibilità ecclesiale e dell’esperienza maturata, selezionando il suo nominativo da una terna di candidati che gli erano stati sottoposti dall’organo direttivo della stessa Ac.
In Azione Cattolica fin dall’adolescenza, Michela ha mosso i primi passi nella più importante associazione del laicato cattolico italiano, grazie a don Alvaro Gori, storico assistente dell’Ac diocesana. Abbiamo raccolto dalla sua stessa voce le impressioni a caldo dopo la nomina.
Michela, che sensazioni vivi nell’iniziare questo secondo mandato come presidente?
«Sono emozionata, contenta, intimorita… Ci sono un po’ tutte le emozioni. Sono innanzitutto grata al Signore, e poi grata al vescovo Giovanni per essere stato in questo anno davvero punto di riferimento, non solo per l’associazione ma anche per me. Come ho avuto modo di dire nell’assemblea dello scorso 25 febbraio, mi sono sentita accolta, ascoltata, facente parte di un cammino comune. La mia gratitudine va inoltre a tutta l’associazione, al nuovo consiglio, che ha deciso di fidarsi ancora di me, per camminare insieme per un altro triennio. Mi affido al Signore, perché pensi Lui a guidarmi, a portare a compimento il seme di bene che potrò provare a gettare. Mi affido alla comunione con il vescovo Giovanni, alla comunione con i nostri assistenti e con tutti coloro che con me si son resi L disponibili in questo nuovo triennio. La preoccupazione svanisce solo se so di potermi affidare, da sola niente posso».
Dove è stato indirizzato maggiormente il tuo impegno nei tre – diventati quattro a causa della pandemia – anni scorsi?
«Intanto mi preme dire che in Ac abbiamo una “responsabilità diffusa” che riconosce certamente al presidente una funzione di coordinamento; ma il cuore pulsante dell’associazione sono il consiglio, la presidenza diocesana, la presenza sui territori dei presidenti parrocchiali e la presenza fondamentale dei nostri assistenti. Nessuno si associa, o ha ruoli di responsabilità in associazione, per fare il battitore libero. Credo anzi che uno dei compiti di un presidente diocesano sia proprio quello di vigilare perché questo non accada mai. C’è da tenere insieme il lavoro e l’apporto di tutti, da fare discernimento insieme, in stretta e fraterna corresponsabilità, col metodo sinodale. L’impegno mio è stato quindi quello di tutta l’associazione, in questi che sono stati anni straordinari, proprio nel senso letterale della parola: il covid, il sinodo della Chiesa italiana, il giubileo per i 400 anni della nostra Chiesa diocesana, la nomina del vescovo Andrea alla Chiesa di Arezzo e poi l’arrivo del vescovo Giovanni… È lo “straordinario” ad aver scandito questo mandato e l’impegno ordinario dell’intero consiglio diocesano. Ovviamente ci sono anche fatiche, incomprensioni… anche in Ac viviamo la difficoltà di essere credenti coerenti; anche in Ac è difficile la comunione e la correzione fraterna. Alle volte è difficile il rapporto tra laici e laici, tra laici e sacerdoti, ma se guardo agli anni passati, la parola che penso faccia maggiormente sintesi per me è “grazia”. Un periodo di grazia per la mia vita, dove ho senz’altro ricevuto più delle fatiche che posso aver fatto».
Adesso quali sfide ti attendono, quali priorità?
«Credo, e lo abbiamo sperimentato anche negli anni appena trascorsi, che la domanda di senso, il desiderio dell’incontro con il Signore, il desiderio di trovare casa – ossia desiderio di fraternità e ascolto – da parte delle persone, siano molto forti. La prima responsabilità che ho, che abbiamo è quella di non far trovare porte chiuse, o dare risposte superficiali e preconfezionate. La priorità è sempre quella di portare il Signore a chi incontriamo. È l’incontro con Gesù che dà senso e compiutezza di vita. Credo sia necessaria allora una proposta associativa viva e generativa, che davvero abbia a cuore le domande di vita degli uomini. Un’associazione capace di essere di tutti e per tutti, tenendo al tempo stesso l’asticella alta nei cammini proposti, non per essere di élite, ma per aiutarsi tutti a diventare santi come il Signore ci chiama a essere. Un’associazione che ci formi e che ci dia il coraggio di fare rumore davanti alle ingiustizie. È Dio incarnato quello in cui crediamo, non un Dio che è rimasto nell’alto dei cieli. A questo proposito riprendo il versetto che fa da icona al nostro anno associativo… dice Gesù: «Chi mi ha toccato? Chi ha toccato le mie vesti?». L’Azione cattolica la immagino un po’ come quella veste di Gesù; ognuno di noi in fondo potrebbe raccontare come sia riuscito a toccare il Signore attraverso la veste dell’Azione cattolica, attraverso le occasioni e le persone incontrate in Ac, e di come il Signore si sia poi fermato, prendendosi cura di quel tocco. Se ci pensiamo bene, “essere la veste di Gesù” dovrebbe essere lo scopo della nostra realtà: mettere in contatto con Lui. Non confondiamoci mai: noi siamo tramite, non siamo noi il Signore, non conta fare proseliti in Ac se non per allargare quella veste e permettere un “tocco” più facile ad altre persone ancora. Infine, ma sta all’inizio di tutto, siamo tramite col Signore solo se aderiamo a Lui. In ogni nostro evento, incontro, dovremo allora aver cura innanzitutto della nostra interiorità, del nostro rapporto personale con la Parola. Dovremo avere sempre più cura della fede e dell’interiorità delle persone che ci sono affidate. Dal giubileo e dal sinodo speriamo di aver imparato che non siamo solo noi mantello del Signore. Non abbiamo l’esclusiva, siamo mantello come sono mantello le altre associazioni, gli altri movimenti. Dobbiamo essere capaci di alleanze dentro e fuori la Chiesa».