Don Bruno Meini ha compiuto 80 anni il 26 febbraio scorso. Già dal 29 gennaio aveva salutato la comunità parrocchiale di Santa Maria a Monte, terminando, di fatto, il suo servizio attivo come parroco. La sua è una vita che «assomiglia tanto a un romanzo», come lui stesso ci ha confidato: gli anni del seminario a San Miniato – quando era ragazzino – poi la carriera militare a Roma, prima alla Scuola delle Trasmissioni della Cecchignola e in seguito al Ministero della Difesa. Gli studi ripresi nella Capitale, con la maturità classica arrivata a 26 anni e la laurea in storia medievale a 32. E poi gli studi di musicologia al Dams di Bologna, intrapresi a 42 anni… e a seguire ancora il Signore che chiama, per l’inizio di un nuovo cammino di discernimento spirituale. Nel 1986 lascia la divisa e inizia a lavorare come musicologo, collaborando con una casa discografica inglese. Dieci anni dopo, nel 1996, l’ingresso nel Seminario romano e nel 2000, all’età di 57 anni, l’ordinazione sacerdotale ricevuta per le mani di san Giovanni Paolo II, nell’anno del Giubileo. Ma non finisce qui… ci sarebbe da raccontare ancora tanto: del suo servizio come formatore al Seminario romano, del rientro in diocesi nel 2008, del servizio pastorale in tre piccole parrocchie vicino a Casciana, della direzione dell’Ufficio diocesano dei beni culturali. Insomma… tante vite… vissute in una sola. Ma lasciamo parlare direttamente lui…
Don Bruno, da alcune settimane lei non è più in servizio attivo… ma un prete va mai realmente in pensione?
«Direi di no. Quando il Signore chiama, chiama per sempre. Il salmo 109 da questo punto di vista parla chiaro: “Tu sei sacerdote per sempre”. Certo, cambia il modo di esercitare il servizio. Una cosa è avere la forza dei trent’anni, un’altra averne ottanta. Ma l’età matura consente di mettere a disposizione il grande patrimonio di esperienze che si è accumulato e, se c’è, anche la saggezza. Finché si “rifiata” abbiamo il dovere, e il piacere, di lavorare per il Signore».
La sua è stata una vocazione “tarda”: prima la carriera militare e poi la chiamata del Signore, con l’ordinazione sacerdotale all’età di 57. Che significato particolare assume il diventare prete in un’età così matura?
«L’età matura porta con sé capacità di ascolto, comprensione e pazienza nella cura dei caratteri umani… tutti fattori che possono essere virati nella cura delle anime. Quando ero militare sono stato 11 anni nella Scuola delle Trasmissioni alla Cecchignola a Roma; ogni tre mesi arrivavano 100-120 allievi. Questo significa che ogni anno entravo in contatto con circa 500 giovani. In tutti i miei anni di servizio lì, ho visto più di 5000 giovani. In questo modo ho maturato una ricchezza enorme, che poi il Signore mi ha fatto recuperare quando sono stato chiamato, dal rettore del seminario romano e dal cardinal Ruini, a fare il formatore. Con i seminaristi ho utilizzato infatti il metodo e la disposizione all’ascolto che avevo acquisito nella vita militare. Dio non butta via nulla delle nostre esperienze. Anche l’essere diventato sacerdote in età così matura, credo sia stato l’elemento che ha poi spinto il rettore a chiedermi di restare in seminario per fare da educatore».
Sembrerebbe non esserci niente di più lontano dalla vita militare della dimensione di spiritualità mite e pacata che lei trasmette. Un cambio di prospettiva radicale…
«Quando ero militare non ero così… – ride -. Non che fossi un orso… ho sempre avuto un occhio attento alla persona, e per questo ero visto un po’ come una specie di mosca bianca in caserma. Però da soldato quando c’è da alzare la voce, devi alzarla. Poi, nei dieci anni trascorsi tra il termine del servizio militare (1986) e l’ingresso in seminario (1996), ho fatto un percorso di verifica spirituale con un sacerdote che mi ha portato, tra l’altro, allo scavo nel vangelo dell’elogio dei miti e a cercare di metterlo in pratica. Mi sono rivestito di questa mitezza, come dici tu, non perché qualcuno mi aveva chiesto di farlo, ma perché il Signore mi aveva già in qualche modo preparato prima di entrare in seminario».
Quasi 23 anni di servizio pastorale come prete. Quali i ricordi più belli di questa vita donata al Signore?
«In assoluto vedere ogni volta risorgere un peccatore dal confessionale; ma anche la direzione e l’accompagnamento spirituale delle anime si legano a ricordi bellissimi. Poi, da un punto di vista emotivo e umano, direi le Prime Comunioni. Vedere il primo contatto dell’uomo, della natura umana, con Cristo e la sua carne è commovente».
Ordinato sacerdote da un santo: san Giovanni Paolo II.. Che ricordi ha della sua ordinazione?
«Era il 14 maggio 2000 e faceva caldo. Era l’anno del Giubileo. Eravamo in ventisei quel giorno a essere ordinati in Piazza San Pietro davanti a 50 mila persone. Noi ordinandi eravamo in un punto in cui batteva il sole a picco. Durante la litania dei santi, sdraiato a terra sul tappeto rosso infuocato, coperto com’ero dalla talare e dal camice, ricordo che pensai: “Signore, se riuscirò ad alzarmi vuol dire proprio che mi vuoi prete”. Fu una cosa bellissima. Dopo ci fu l’imposizione delle mani. Sentirmi “protetto” da quelle grandi mani di papa Karol, che si appoggiarono letteralmente su di me… non ho parole per descriverlo. Perché non impose semplicemente le mani, mantenendo la distanza sul capo, ma si appoggiò con il suo peso su di me».
Come sarà adesso la sua vita da sacerdote in “quiescenza”?
«La prevedo intensa, sia spiritualmente che pastoralmente, nel rapporto con le persone, perché libera dal governo. Finalmente potrò fare quello che ho sempre desiderato, ossia quello che si legge negli Atti degli Apostoli al capitolo 6, quando gli apostoli decidono di ordinare i diaconi, per dedicarsi esclusivamente all’annuncio della Parola e alla preghiera. Oggi, se un sacerdote è stanco e stressato è perché la maggior parte delle cose che fa, sono cose per le quali non è stato ordinato. A questo mondo c’è un bisogno enorme di spiritualità e di richiesta di ascolto. Noi preti invece andiamo sempre di fretta, non stiamo mai in confessionale e poi ci lamentiamo che il sacramento del perdono è disertato. Essendo libero dal governo di una parrocchia, potrò dedicarmi di più alla Parola, all’ascolto, alla confessione, alla direzione…».
80 anni compiuti proprio il giorno in cui il nuovo vescovo Giovanni faceva l’ingresso in diocesi… un bel regalo di compleanno…
«Non conoscevo monsignor Paccosi; quando sono venuto a sapere che aveva anche ruoli di responsabilità all’interno del movimento di Cl, mi sono molto rincuorato. Ho conosciuto Cl al tempo dei movimenti studenteschi del ‘68; era l’unica realtà che sapeva tener testa, in quegli anni tumultuosi, ai vari movimenti studenteschi romani. Il fatto poi che Cl, nei confronti dei giovani, abbia sempre investito sulla ricerca vocazionale in senso ampio, ossia su una risposta integrale alla chiamata che il Signore fa a ciascuno, mi fa ben sperare sulla rinascita anche delle vocazioni al sacerdozio nella nostra diocesi».
Lei è stato per tanti anni responsabile dell’Ufficio per i beni culturali della diocesi. L’arte e la bellezza sono dimensioni decisive per toccare il cuore dell’uomo contemporaneo e portargli salvezza? Come utilizzarle?
«Questo è un punctum dolens, soprattutto nella formazione dei preti. Secondo me bisogna cominciare dai seminari. La domanda che faccio io è: possibile che in Italia ci sia una quantità così impressionante di beni culturali, e poi nelle università pontificie, nelle facoltà teologiche, nei seminari, non viene prevista almeno un’ora la settimana di educazione all’arte?! Non dimentichiamoci che il bello è l’unica dimensione in cui ci troviamo tutti d’accordo. Possiamo essere divisi sulla religione, sulla politica, ma quando siamo di fronte alla bellezza che promana da un’opera d’arte, sperimentiamo una misteriosa unione. La gente va presa per mano e accompagnata in questo. Quando gli fai capire la bellezza di un particolare di un dipinto, noti lo stupore, vedi il volto che si distende. A quel punto lo scopo dell’arte è raggiunto. Perché ad esempio non dedicare i primi tre minuti di un’omelia domenicale a un quadro che illustri il vangelo o una delle altre letture. Tre minuti, non di più, sennò diventa una lezione di storia dell’arte. Un tentativo di questo genere si potrebbe fare con i foglietti domenicali di sussidio alla Messa. Occorre però che l’opera riprodotta sia scelta con cura e che sia graficamente di buona qualità. Il sacerdote potrebbe richiamare l’immagine e illustrarla… Oppure: nelle chiese che lo rendono possibile, si potrebbe installare uno schermo per lo stesso scopo. Ripeto: solo tre minuti ad inizio omelia: il bello al servizio della Parola. Siamo sempre a dircelo che abbiamo un grandissimo patrimonio di arte sacra, che però rimane lì, senza esprimere al massimo il suo potenziale».
Nel suo curriculum ci sono anche studi universitari in musicologia. Che cos’è per lei la musica e come influenza la sua spiritualità e il suo essere prete?
«Ho scoperto la musica negli anni dell’università a Roma. Negli otto anni in cui ho fatto il formatore al seminario romano, mi capitava di portare spesso i seminaristi ai concerti, così come a teatro o nei musei, e insistevo sempre su questa idea: allenarsi a percepire le sfumature dei suoni e dei colori, sviluppa una sensibilità che poi serve nell’ascolto delle anime, nella direzione spirituale. È per questo che prima dicevo che la storia dell’arte e la conoscenza della musica devono entrare nella formazione dei preti. Ogni tanto, quando posso, durante la Messa, canto le parole della consacrazione… in quei momenti si sente un silenzio surreale. L’assemblea è concentratissima. È l’indice che qualcosa di particolare sta accadendo. Queste cose le insegnavo già ai miei confratelli educatori al seminario romano. Andare a un concerto può essere anche snob ma cantare nella liturgia, dando pienezza alla parola, no, diventa parte integrante della celebrazione. Sai… da un po’ di tempo mi sto convincendo sempre più che nell’uomo il gusto e il piacere per il bello, come cammino per il vero e il buono, venga da lontano, addirittura da Genesi. Per questo è universale. Ma ci devo riflettere ancora. Lì ci sono le nostre origini, ma anche il nostro presente».