Camminare insieme non è facile. Richiede allenamento e attenzione al passo dell’altro. I ritmi di apprendimento, della progettazione e della realizzazione dei progetti sono assai diversi. Ciò nonostante, della sinodalità si vedono i lati positivi, per questo ci si deve impegnare a raggiungere l’obiettivo.
Se guardo all’ambiente in cui sono nato e cresciuto come uomo e come cristiano, devo constatare alcune cose per le quali non finirò mai di ringraziare Dio. Sono nato in una famiglia semplice e povera, con dei genitori che mi hanno insegnato l’onestà, la schiettezza, l’attenzione agli altri; una famiglia povera economicamente, ma ricca di fede non bigotta, genuina. I proverbi che spesso il babbo ripeteva (la saggezza dei vecchi, come «poveri, ma onesti», «fa’ all’altro quello che vorresti fosse fatto a te», «la miglior vendetta è il perdono») si sono impressi per sempre nella mia mente.
Come sacerdote, sono stato arci[1]fortunato, perché ho vissuto i primi 13 anni di ministero con un prete più grande e più intelligente di me, che mi ha introdotto nella vita pastorale, donandomi fiducia e lasciandomi spazio per le mie iniziative, che apprezzava e condivideva. Una vera scuola di sinodalità, in cui il più giovane poteva avvalersi dell’esperienza del più anziano e il più anziano era sostenuto dall’entusiasmo C del più giovane.
La seconda parte della mia “giovinezza sacerdotale” l’ho vissuta a servizio dei fratelli emigrati all’estero; un primo momento accanto a due sacerdoti assai navigati nella cura pastorale dei migranti, e un secondo momento da solo in un territorio grande quanto la Toscana e l’Umbria insieme con ben 17 comunità italiane da curare, distribuite su 4 diocesi, ma senza mai perdere il contatto con gli altri missionari italiani e con i preti inglesi, in una comunione di intenti, di sofferenze e di progetti. Tornato in patria quasi cinquantenne, qualche difficoltà di reinserimento l’ho incontrata, ma non mi sono arreso. E se talvolta non riuscivo a condividere certe scelte e prassi pastorali, non per questo ho rotto i ponti con questi confratelli; magari li ho aiutati a spostare più avanti il raggio d’osservazione.
Con i laici sono cresciuto insieme, specialmente con i giovani, quando ero giovane; con i ragazzi, sempre, finché la percezione che essi hanno avuto di me, come vecchio, non mi ha impedito di continuare.
Ripensando al passato, tornano a mente alcune esperienze di sinodalità vissute intensamente con i laici e con i preti. Con i laici: la preparazione della liturgia domenicale fatta insieme (omelia, scelta dei canti, le introduzioni, la preghiera dei fedeli). La “revisione di vita”, momento forte con i giovani, in cui ci mettevamo a nudo di fronte alla Parola di Dio, con la conseguente confessione sacramentale. L’orchestrazione catechistica, spesso con l’apporto di esperienze di altre parrocchie situate in altra diocesi. L’esperienza dei campi[1]scuola estivi, sia a Gavinana che sulle Dolomiti, con ragazzi dalla terza elementare alla fine delle superiori con il coinvolgimento di giovani più formati che trovavano in questa esperienza il modo di esprimere il meglio delle loro possibilità.
Con i preti: la collaborazione in parrocchia e nella zona pastorale; la preghiera giornaliera in comune (S. Maria a Monte); la condivisione dei pasti con la facilità della comunicazione. Prima che ci fosse il sistema del sostentamento attuale, che assicura ad ogni prete un compenso mensile per una vita dignitosa, sperimentammo anche una specie di “cassa comune” che permetteva una perequazione delle differenti magre retribuzioni che i cappellani ricevevano dai loro parroci. Il tutto, poi, era condito saporitamente dal clima entusiasmante scaturito dal rinnovamento promosso dal Concilio ecumenico, Oggi, con la vecchiaia che morde, con le condizioni di vita notevolmente cambiate (e aggravate dal Covid-19), con il numero ridotto di preti e la non sempre facile e possibile disponibilità dei laici, la sinodalità, il camminare insieme, è diventato più difficile, ma non per questo meno importante; anzi, più urgente, un’esigenza improcrastinabile per la credibilità stessa del Vangelo.
Bisognerà ripartire dalle piccole comunità, che credono nella potenza della Parola di Dio, posta alla base di ogni forma di vita. Il virus ha cancellato una cristianità di facciata, tradizionale, che veniva (non partecipava) in chiesa per osservare un’usanza, non per convinzione. Stiamo assistendo giorno per giorno al crollo di queste “facciate”. Siamo in una fase simile a quella del dopo terremoto: le vecchie case sono inagibili e le nuove non ci sono ancora. Non è ancora nata la nuova “comunità credente”. E in questa fase di gestazione – credo – c’è bisogno di una profonda revisione della vita di noi preti: più vicini agli altri, specialmente agli “ultimi”, coinvolgendo in questa operazione anche quelli che ritengono essere “primi”; in mezzo agli altri, ma da preti, perché «se il sale perdesse il sapore, non servirebbe ad altro che ad essere gettato via e calpestato».