«Scegliere» è una delle facoltà più alte e nobili dell’essere umano, intrinsecamente connessa al concetto e all’esercizio della libertà. Scegliere la propria la vita e quale orientamento conferirle è ciò che rende l’uomo autenticamente umano. Purtroppo nel nostro Paese esistono contesti in cui questa elementare possibilità per molti soggetti risulta impraticabile. Il riferimento, nello specifico, è a tutti quei ragazzi che nascono nel contesto di un clan mafioso e alle donne che di questi circoli parentali fanno parte. Una realtà poco conosciuta e indagata, su cui ha fatto luce il giudice Roberto Di Bella, presidente del Tribunale dei minori di Catania, fondatore del progetto “Liberi di scegliere” e autore di un libro omonimo che porta come sottotitolo «La battaglia di un giudice minorile per liberare i ragazzi dalla ‘ndrangheta» (Rizzoli editore).
Il giudice Di Bella è stato ospite in un incontro promosso dell’associazione Osc (Opera speranza e cultura) che si è tenuto nell’antica Biblioteca del Palazzo del Seminario, giovedì 16 dicembre a San Miniato. Con lui, per riflettere sul tema della promozione della legalità e dell’educazione dei giovani nel contrasto alla criminalità organizzata, anche il nostro vescovo Andrea, don Armando Zappolini e Enza Rando, vice presidente nazionale di Libera. Testimoniando della sua esperienza, Di Bella ha raccontato come «per tanti ragazzi in Calabria e in Sicilia la vita, ancora oggi, non sia affatto facile, perché la loro famiglia di origine coincide molto spesso con una famiglia criminale».
Date queste premesse, chi nasce in un contesto mafioso respira, fin dalla più tenera età, quel tipo di cultura venendo ad assumere un imprinting difficilissimo da scalfire durante la crescita. Sono ragazzi abituati a sopportare il dolore di vedere recisi tutti i naturali legami familiari, emotivi e sociali, abituati a recarsi fin da piccoli in carcere per visitare i padri detenuti. Molti di loro, spesso, un padre nemmeno ce l’hanno più, perché ammazzato nei ricorrenti regolamenti di conti tra cosche. Ragazzi insomma a cui è stata rubata infanzia e adolescenza e quindi la libertà di scegliersi una vita.
Il giudice messinese ha raccontato con dolore anche di aver incrociato giovani che, in ossequio alla legge tribale del clan, hanno assassinato le loro madri, perché diventate testimoni e «collaboratrici di giustizia, o semplicemente perché non avevano “saputo aspettare” i mariti detenuti in prigione, provando a rifarsi una vita differente, lontano dal crimine. È proprio pensando a questi ragazzi «che sono sì carnefici, ma anche vittime – ha detto il giudice Di Bella – che con i colleghi di Reggio Calabria abbiamo pensato che poteva diventare un’opportunità di riscatto per loro, l’essere allontanati dai loro territori malavitosi», ricollocandoli in contesti e situazioni più ecologiche e favorevoli. La ricollocazione viene effettuata all’interno di famiglie di volontari anti-mafia. Dopo una prima opposizione hanno dato il loro aiuto anche molte donne appartenenti a queste famiglie malavitose, che intuendo una possibilità di riscatto per i loro figli, sono anche diventate collaboratrici di giustizia entrando a far parte dei programmi di protezione.
Oggi, per gestire tutto questo, esiste una rete consolidata che coinvolge l’associazione Libera di don Luigi Ciotti e che vede impegnata anche la Conferenza episcopale italiana, che destina importanti fondi dell’8×1000 alla ricollocazione di questi ragazzi e di queste donne.
Enza Rando, come vice presidente di Libera, ha parlato dell’impegno della sua associazione nel portare avanti questo progetto e lo ha fatto ricordando Lea Garofalo, una delle prime donne collaboratrici di giustizia, barbaramente trucidata dalla ‘ndrangheta nel 2009.
Don Armando Zappolini, da tempo impegnato su queste tematiche, ha sottolineato la portata dirompente di questo progetto: «Bisogna sgretolare la mafia nella paura che incute nella società e che blocca tutto. Bisogna continuamente educare i nostri ragazzi a riconoscere subito il “puzzo della mafia”, per tenerla lontana». E a questo proposito don Zappolini ha ricordato l’esperienza delle “4 del pomeriggio” lanciata da Caritas San Miniato, che ha portato i ragazzi della nostra diocesi a conoscere e operare nei territori piagati dalla malavita organizzata.
Anche il vescovo Andrea ha portato il suo saluto all’incontro, formulando un suo pensiero: «La criminalità non è un tema altro o lontano da noi. Dobbiamo essere presenti nei territori come sentinelle. Dobbiamo essere capaci di intercettare i bisogni, perché la criminalità s’inserisce laddove ci sono bisogni legittimi non soddisfatti. Abbiamo allora il dovere di essere comunità attente e presenti, capaci di intercettare il disagio».
All’incontro hanno partecipato anche il sindaco di San Miniato, Simone Giglioli, Matteo Squicciarini animatore del Progetto Policoro della Cei, Matteo Lami presidente della cooperativa “Il cammino”, le autorità militari cittadine e Mimma Scigliano scrittrice e giornalista, che ha moderato e animato il dibattito.
In finale il giudice Di Bella, ha voluto conferire un risvolto concreto all’incontro, invitando i nostri territori a farsi attenti rispetto a “Liberi di scegliere”: «C’è bisogno di famiglie disposte ad accogliere questi bambini e questi ragazzi. C’è bisogno di case e appartamenti per dare ospitalità a queste donne e ai loro figli. C’è bisogno di imprenditori che offrano a queste donne un lavoro per rifarsi una vita».
Valerio Martinelli, presidente di “Opera speranza e cultura”, dopo aver confermato l’impegno della sua associazione per continuare a riflettere sul tema della legalità e dell’educazione delle giovani generazioni, ha dichiarato la disponibilità di Osc a farsi promotrice per i nostri territori di questi percorsi di ricollocazione mirata di questi bambini e di queste donne.