Suor Rita Giaretta è una suora orsolina che ha dedicato la vita a salvare dalla strada ragazze ridotte in schiavitù e costrette a prostituirsi. A questo scopo ha dato vita a Caserta a Casa Rut, punto di approdo e culla della rinascita per queste donne, e oggi a Roma ha intrapreso una nuova strada, la gestione di un appartamento nel quale vivere insieme a chi ha subito violenza e sperimentare la “sorellanza”.
Sabato 13 Novembre suor Rita sarà a Isola, nella chiesa parrocchiale alle 18.30, per presentare il libro di Mariapia Bonante «Io sono Joy. Un grido di libertà dalla schiavitù della tratta», insieme alla protagonista della vicenda: Joy. Partita per l’Italia da Benin City, all’età di 23 anni, con la promessa di un lavoro per pagarsi gli studi, Joy cade in una sorta di girone infernale: la drammatica traversata del deserto, i campi di detenzione libici, il barcone alla deriva nel Mediterraneo.
Salvata miracolosamente dal naufragio, sbarca in Italia per scoprire che il lavoro promesso è “la strada”, dove una “madame” la obbliga a prostituirsi col ricatto del voodoo e di un debito di 35.000 euro. A Castel Volturno, in Campania, diventa schiava di aguzzini senza pietà. Ma Joy, anche nei momenti più drammatici, non smarrisce la fiducia in Dio, che l’aiuta ad affrontare e a sconfiggere la banalità del male. Un libro potente, raccontato in prima persona, che vanta la prefazione di papa Francesco. In attesa dell’incontro a Isola, abbiamo raggiunto suor Rita Giaretta per rivolgerle alcune domande. La storia di Joy è un vero e proprio cazzotto nello stomaco, una vicenda che scarnifica la coscienza fino a farla sanguinare.
Dalla sua esperienza, cosa occorrerebbe fare per sensibilizzare un maggior numero di persone a questi drammi? «Tutta la società sta pagando un prezzo altissimo per questi drammi umani. Troppo spesso la donna è umiliata e offesa. Allora dovremmo veramente unire le forze, non solo noi donne, ma anche gli uomini, che dovrebbero avere più coraggio, interrogarsi e chiedersi il perché della violenza. Dovremmo molto S di più impegnarci come società civile: la politica, le istituzioni, la scuola, la famiglia, la Chiesa. Io credo che ci sia da abitare tutto lo spazio della prevenzione, tutto lo spazio della sensibilizzazione, tutto lo spazio culturale per incidere».
Lei dice spesso che, nel marchingegno infernale della tratta, uno dei fenomeni più inquietanti è l’alta domanda che c’è qui in Italia di giovani prostitute. Secondo lei i clienti di queste ragazze sono consapevoli di essere loro stessi, per la loro parte, “aguzzini”? «C’è ancora una forte mentalità maschilista, una società patriarcale che domina e porta a vedere la donna come una merce, un corpo da usare, da indurre alla prostituzione. Certi uomini, che usano così una donna, non pensano che potrebbe essere la loro figlia, la loro sorella. E anche le adolescenti sfruttate e violate faticano a ritrovare modelli di riferimento nuovi e vanno accompagnate.
Non è un grido contro qualcuno, ma in favore della vita. Se tradiamo la vita, tradiamo il Vangelo, la speranza. Anche i mass[1]media dovrebbero guidare la gente a cammini di riflessione, non di contrapposizione». Come arrivano da voi queste ragazze derubate della loro dignità? «Le vie sono le più svariate: può essere la polizia che, facendo una retata o girando per le strade, incontra una ragazza che poi capisce essere una vittima di questa situazione di sfruttamento e quindi ce la porta, possono essere altre associazioni. Ma molte ultimamente stanno arrivando col passaparola, perché ormai la nostra realtà opera da più di 20 anni in questa missione. C’è un tam-tam anche tra loro e a volte apriamo la porta al mattino per uscire e troviamo lì una ragazza seduta sul gradino che sta aspettando. Magari ha solo una borsetta accanto o un sacchettino dell’immondizia, dove ha messo dentro qualcosina. Guarda con due occhi di una tristezza infinita e chiede: «Help, help… Aiutami, aiutami…».
Non si riesce a immaginare quanto una ragazza salvata dalla strada possa essere disgregata nel suo mondo psichico. Queste giovani donne riescono a recuperare una normalità accettabile in termini psicologici ed esistenziali? «La donna che subisce violenza arriva a perdere la stima di sé, la fiducia, non si sente amata, non si sente amabile, ha un senso di umiliazione profonda. C’è tutto un cammino da fare: è importante l’ascolto, importante è trovare delle reti, importantissimi sono i centri antiviolenza. Importante è trovare una vita religiosa, soprattutto femminile, che si mettal a fianco di queste donne per riuscire a ricostruire la loro umanità ferita. Ecco solo quando la donna si riprende, alza la testa, si sente amabile, capisce che è stata per un momento vittima, ma che quella non è la sua condizione perché Dio non l’ha creata per essere una vittima ma per dare il meglio di sé, per essere protagonista nel mondo insieme all’uomo, insieme alla comunità. La via del riscatto passa per un’autonomia economica e in questo è fondamentale avere un lavoro, ma è anche un riscatto umano, spirituale, fisico, psichico e psicologico che porta la donna a sentire che sta bene nel suo corpo ed è chiamata a dare la sua parte, il suo contributo nella società.
In cosa consiste l’esperienza della “sorellanza” che sta portando avanti a Roma? «Dopo 25 anni di cammino accanto alle donne a Casa Rut, che continua nell’esperienza di offrire percorsi di liberazione, abbiamo capito che dobbiamo arrivare a sperimentare che non ci sono più la vittima e il benefattore, non c’è più l’assistenzialismo, ma ci sono donne che vivono insieme. La nostra esperienza si svolge in un piccolo appartamento a Roma, dato in comodato d’uso nel quartiere Don Bosco – Tuscolana, grazie alla parrocchia di San Gabriele dell’Addolorata. È un appartamento al sesto piano ed è bellissimo, quasi un invito a sollevarci, ad alzarci, a guardare in alto. A condividere tutto questo con me c’è una consorella delle suore orsoline, una mamma con bambino e un’altra ragazza che, in passato, hanno vissuto un’esperienza di violenza ma che oggi, grazie a questo cammino di recupero, vogliono contribuire e diventare testimoni perché non ci sia più questa violenza sulle donne. È bella quindi questa sororità, spazio aperto dove possiamo tessere relazioni nuove, insieme anche alla comunità parrocchiale e alle associazioni. Un piccolo segno per dire che insieme è possibile sognare un mondo nuovo, un mondo di pace».