A volte ci sono delle esperienze di vita, di lavoro, di residenza, di convivenza che cominciano nel segno della provvisorietà e del tempo determinato, ma che strada facendo si rivelano, per chi le vive, più importanti e meno provvisorie di quello che sembravano in partenza. È un po’ quello che è accaduto in quest’ultimo anno e mezzo al nostro diacono Tommaso Giani nel suo servizio in diocesi di San Miniato. Un’ordinazione e un ministero che si prospettavano come transitori e propedeutici a una seconda ordinazione, quella presbiterale, ma che col passare del tempo hanno cominciato a brillare nel cuore di Tommaso di una luce sempre più intensa, fino a fargli ipotizzare che il suo diaconato non si trattasse di una tappa di pochi mesi, ma di un punto di arrivo del suo cammino vocazionale. «In accordo col vescovo Andrea – ci racconta – ho deciso di prolungare questo mio servizio da diacono, perché alla luce di un discernimento attento e appassionato mi sono reso conto che la dimensione di servizio alla Chiesa, al prossimo e alla società, che sto vivendo ora, è quella che in assoluto mi permette di esprimere al meglio i miei talenti e le mie peculiarità nel testimoniare il Vangelo di Gesù».
Ma allora come sei riuscito a fare i conti con il desiderio di diventare prete che ti aveva accompagnato negli anni del Seminario fino a pochi mesi fa?
«La vita del prete rimane piena di fascino ai miei occhi. E non escludo che in un futuro a medio[1]lungo termine questa strada possa tornare a essere una possibilità concreta per il mio cammino nella Chiesa. Però in questo momento sento che la mia chiamata è un’altra. È nella vita di diacono che sto facendo già adesso».
Quali sono le peculiarità del ministero diaconale che senti più adatte a te?
«Innanzitutto la dimensione del servizio: in strada, con le persone senza tetto con cui abito nel dormitorio di Santa Croce sull’Arno, con gli studenti a cui insegno religione al professionale di Fucecchio, con i tifosi della Sampdoria con cui sono cresciuto e con cui cammino insieme da tanti anni, e poi con gli scout, con i giovani delle parrocchie, con gli sconosciuti che incontro per strada e che provo a coinvolgere nei miei esperimenti sociali estivi, come il giro d’Italia in bici senza soldi o le cene fra abitanti di quartieri diversi della stessa città… Sono tutti modi e tutti luoghi in cui testimoniare l’amore di Gesù. Luoghi dove riecheggia il richiamo alla “Chiesa in uscita” fatto da papa Francesco e che io sento particolarmente forte. Il ministero del prete, nella sua concretezza della fase storica della Chiesa italiana che stiamo vivendo attualmente, lo vedo invece molto centrato sulla celebrazione eucaristica, sul servizio all’altare. Non voglio essere equivocato: l’Eucaristia rappresenta anche per me un nutrimento imprescindibile della mia fede, però devo ammettere che immaginarmi nel turbinio di Messe, funerali, incombenze liturgiche e vita parrocchiale di cui la vita del prete è costituita, rappresenta una prospettiva che (ho capito negli ultimi mesi) non sento molto nelle mie corde».
Ma uscendo troppo fuori dal recinto delle parrocchie e dei luoghi tradizionali della vita cristiana non c’è il rischio di diventare un battitore libero e perdere in ecclesialità?
«È un rischio che esiste, per chi svolge nella Chiesa un servizio di frontiera come il mio. Però io lo sento forte, il bisogno di riportare nella Chiesa, nella Caritas e nelle associazioni cattoliche della nostra diocesi le mie esperienze e i miei vissuti, in modo da condividerli e creare legami fra la comunità cristiana e i miei compagni di strada che ne sono al di fuori. Per esempio al centro notturno di Santa Croce sull’Arno in quest’ultimo anno e mezzo sono venuti a trovarmi diversi gruppi giovanili e parrocchiali per offrire la colazione o la cena agli ospiti del dormitorio, e condividere piccoli momenti di convivialità insieme a loro, e ascoltare la mia esperienza di vita lì».
Quali sono i tuoi prossimi progetti in cantiere per il nuovo anno pastorale, scolastico, calcistico…?
«Con la mia “parrocchia” dell’Istituto Checchi sto organizzando per la prima settimana di scuola a settembre 7 giorni di vita comunitaria insieme a 18 studenti e studentesse della scuola, presso l’ostello di Ponte a Cappiano, per provare tutti insieme a vincere la sfida di una settimana disconnessi da internet, senza telefoni, tablet o pc. Se ci riusciamo si tratterebbe di una bella riscoperta dei rapporti umani e della socialità vissuta alla massima intensità, senza la mediazione degli schermi. Una sorta di “disintossicazione” che aiuterebbe tutti noi partecipanti a ritornare alla vita “connessa” con un rapporto più equilibrato e meno compulsivo nei confronti di internet. Con la mia “parrocchia” della stadio a Genova sarà l’anno della graduale riapertura della nostra socialità fra tifosi: il mio tentativo in quel contesto è provare a portare nel mondo del calcio e del tifo dei messaggi di fratellanza e di solidarietà al di là dei colori diversi; ad esempio non vedo l’ora di ricominciare a offrire la merenda e la focaccia genovese ai tifosi della squadra avversaria di turno della Sampdoria, o stimolare i miei amici tifosi a sostenere adozioni a distanza di bimbi profughi siriani come riuscimmo a fare in occasione dell’ultimo Natale prima del covid. E poi ovviamente c’è la mia “parrocchia” della strada, dove passo la sera e la notte: spero di continuare a essere una presenza d’amore e un cristiano credibile per le persone un po’ malandate che vivono insieme a me. Spero anche di continuare a tessere legami e a costruire ponti fra i miei mondi “di giorno” (scuola, parrocchie, associazioni) e la mia casa “di notte” di Santa Croce sull’Arno, dove ho trovato tanta confusione e trambusto ma anche – paradossalmente – tanta serenità e pace interiore».