Riflessioni

Quale futuro dopo il lockdown?

la Redazione

Prima dell’arrivo del Covid-19, era opinione generale considerare la nostra società bisognosa di una profonda riqualificazione, ambientale, economica, antropologica in generale. Agli inizi dell’anno il virus, venuto dalla Cina e diffusosi in tutto il globo in brevissimo tempo, al punto di dover riconoscere che una pandemia dai connotati sconosciuti stava devastando l’umanità tutta, ha fatto nascere quasi di botto la consapevolezza che era arrivato il momento di fare quella riqualificazione della vita, ed in tutte le sue varie forme.

Da un giorno all’altro ci è stato imposto il confinamento in casa, e sono state chiuse tutte le attività produttive non necessariamente indispensabili. Il senso di paura per la mortalità del virus che non risparmiava nessuno ci ha persuaso che dovevamo accettare il sacrificio del lockdown come un rimedio unico facendoci coraggio vicendevolmente. Ci siamo inventati slogan propiziatori: «Andrà tutto bene!» è apparso scritto su tanti balconi delle case sotto l’iride dell’arcobaleno e dalle finestre è uscito l’Inno nazionale sotto lo sventolio del tricolore. Sono bastati pochi giorni e anche la natura si è ripresa lo spazio che l’uomo gli aveva sottratto. Il cielo è diventato davvero sempre più blu, e i fiori sono spuntati di nuovo nelle strade deserte e silenziose. C’è voluto poco perché tutti capissimo che dopo il Covid-19 la nostra esistenza, il nostro modo di vivere non avrebbe potuto e dovuto essere più come prima. Certe qualità materiali, economiche, morali, religiose, esistenziali le dovevamo riconquistare nella loro genuinità. La stessa assenza dalla liturgia è stata avvertita da molti come una mancanza di una necessità vitale per lo spirito, di cui prima non ci se ne rendeva conto e a gran voce è stato richiesto il ritorno ai Sacramenti, alla Messa non più assistita, ma partecipata. Di fronte al sacrificio di tante vite di medici e di infermieri abbiamo sentito il rimorso di averli maltrattati, aggrediti negli ospedali, nei pronto soccorso e li abbiamo eletti a nostri eroi, come ci siamo commossi di fronte alle morti di decine di sacerdoti e di operatori sociali e dell’ordine pubblico. E i bollettini giornalieri che elencavano i contagi ed numeravano i morti in un crescendo vertiginoso, reso visibile dalla lunga teoria di camion militari carichi di bare per i forni crematori, hanno devastato molti, troppi pomeriggi di questa primavera. Di fronte a tutto questo cosa si doveva fare? Rimboccarci le maniche e mettere mano alla costruzione della nuova società, quella appunto che volevamo riqualificare prima dell’arrivo del virus. Invece è bastato che i percoli della pandemia si allentassero appena di poco che disperatamente abbiamo richiesto di tornare al passato, in pieno, nevrotico modo nostalgico, come se quello fosse stato un tempo in cui eravamo felici e non lo sapevamo.

Ma siamo davvero sicuri che basti riaprire tutto sotto la protezione di una mascherina e stando un paio di metri alla larga l’uno dall’altro che di nuovo i ristoranti si riempiranno, che i bar pulluleranno di clienti, che le spiagge si popoleranno alla pari di discoteche, musei, sale cinematografiche e turismo in generale? Sarà davvero il prossimo futuro rifatto ad immagine e somiglianza di quel passato che volevamo riqualificare? C’è forse ancora speranza se troveremo il tempo e la voglia di rispondere sinceramente a questa domanda.