Quando non si lavora, o si lavora male, o si lavora poco, o si lavora troppo, è la democrazia che entra in crisi e tutto il patto sociale». Don Bruno Bignami, direttore dell’Ufficio della Pastorale sociale e del lavoro della Cei, è partito da queste parole di papa Francesco, per tessere la sua riflessione attorno all’universo lavoro e illustrare il “Progetto Policoro” della Cei.
Viviamo una fase di passaggio rispetto alle grandi questioni sociali che interrogano la nostra vita. Il Santo Padre parla addirittura di «cambiamento d’epoca». Diventa allora di decisiva importanza riflettere sul lavoro come ambito nel quale l’uomo esercita il suo diritto ad attribuire un significato alla vita.
Ma quale sarà il lavoro del futuro? Importanti studi attestano che il 5060 % dei lavori in essere oggi, a breve scompariranno e nasceranno nuove occupazioni, oggi neppure immaginabili. Un’idea già ben espressa da Paul Zane Pilzer, economista americano, che ha spiegato come il 95 % della ricchezza prodotta oggi a livello globale, è generata da attività umane che 50 anni fa non esistevano.
Tutto questo richiede e richiederà, com’è ovvio, una grande disponibilità ad adattarsi. In che direzione allora si orientano, e si orienteranno, le indicazioni della Chiesa e dove si colloca e si collocherà la sua evangelizzazione in questo ambito? Per rispondere si può partire proprio dalle parole di papa Francesco riportate all’inizio, che chiamano in causa il lavoro rispetto al tema decisivo della democrazia, ossia del modello di comunità nel quale viviamo. È proprio il modello di lavoro che realizziamo che racconta anche il nostro modello di democrazia, perché racconta il tipo di relazioni che si costruiscono su un luogo. Esiste insomma un legame decisivo tra l’esperienza del lavoro vissuta e le relazioni sociali che si instaurano in quel territorio. E qui don Bignami ha portato l’esempio della sua terra, il cremonese, da secoli a vocazione agricola, imperniata sulle “cascine padronali” dove il padrone viveva contornato da una pluralità di famiglie contadine al suo servizio. Questo tipo di struttura sociale e lavorativa ha generato nel tempo anche un modello di relazione contrassegnato da ambiguità, dove il contadino a motivo del fastidio di rendicontare al padrone adottava spesso comportamenti non trasparenti. Si tratta di una dinamica secolare, che a cascata ha messo radici anche nella Chiesa locale, nelle relazioni tra il vescovo e i suoi presbiteri, relazioni tendenti a replicare lo schema padrone-contadino. Come Chiesa di San Miniato, se riusciamo allora a capire di che tipo sono le relazioni che si instaurano nel nostro territorio a motivo del modello di lavoro, riusciamo a comprendere meglio anche la nostra identità e dove vogliamo andare.
Ora, la parola “comunità” è tipica dell’esperienza della Chiesa, in quanto essa stessa è una comunità che si rigenera continuamente. Proprio in virtù di questo, le nostre Chiese dovrebbero avere qualcosa di importante da dire sui temi del lavoro. Non possiamo tirarcene fuori. Un modello di comunità genera sempre un modello specifico di lavoro: pensiamo alla porzione di Valdarno che insiste sul nostro territorio diocesano e alla sua vocazione per la lavorazione del cuoio e delle pelli. S’intuisce in maniera lampante che quel modello di lavoro è stato realizzato nel tempo grazie ai modelli di comunità che quivi esistevano. Don Bignami si fa poi accorato quando arriva a parlare dei giovani, verso i quali vede in atto una sorta di congiura sociale proprio riguardo al loro rapporto con l’orizzonte lavorativo. Drammatico è il caso dei cosiddetti NEET, giovani “sdraiati”, afflitti da carenza motivazionale, parcheggiati in un limbo in cui non lavorano, né studiano.
A questo proposito racconta l’esperienza di un sacerdote psicologo di Parma. La sua parrocchia era divenuta il luogo dove ragazzi senza arte né parte, si radunavano per fare uso di sostanze stupefacenti e compiere atti di vandalismo. Questo parroco non ha giudicato quei ragazzi ma ha cominciato a chiedersi perché avessero scelto proprio gli spazi della parrocchia per “ammazzare” il tempo. Un giorno l’illuminazione: la loro era una disperata richiesta di aiuto, la richiesta di essere riconosciuti nell’esistenza. Da lì in poi tutta la parrocchia ha allora preso sul serio questa intuizione. È stato creato un laboratorio di arti manuali per far lavorare quei ragazzi, per strapparli al loro quotidiano non senso. Questi giovani sono stati pian piano integrati e a distanza di 4 anni dall’inizio di questa esperienza, qualcuno di loro ha avviato un’attività in proprio aprendo partita Iva. Ma questo ha comportato un cambiamento radicale nell’impostazione della parrocchia, dove oggi qualsiasi attività, anche quella catechistica, contempla una parte di educazione alla manualità. La manualità come pedagogia ed esperienza cristiana. La Chiesa italiana rispetto a problemi di questa portata non è rimasta spettatore passivo, e già dalla metà degli anni ’90 ha ideato il “Progetto Policoro”, dal nome della cittadina lucana da cui l’idea è partita. Si tratta di una feconda intuizione in cui le diocesi investono energie nell’accompagnare le persone a crearsi competenze lavorative. Viene individuato un giovane capace di assumersi il ruolo di “animatore di comunità”, che dovrà attivarsi per realizzare connessioni sul territorio. L’obiettivo è proprio quello di creare comunità di lavoro mettendo in comune tutta una filiera di competenze e professionalità. Perché in una diocesi tutto ciò possa funzionare è indispensabile una stretta comunione d’intenti tra Pastorale Sociale del Lavoro, Pastorale Giovanile e Caritas diocesana.
Le nuove attività imprenditoriali che nascono prendono il nome di “gesti concreti”. Di questi “gesti concreti” ne sono nati oramai centinaia in tutta Italia, da quando il Progetto è attivo. Giusto per portare un esempio: a Matera esiste da qualche anno la bellissima realtà di “Oltre l’arte”, cooperativa impegnata nella valorizzazione del territorio e dei beni artistici, che dà lavoro a 40 persone, tra cui molti disabili. La diocesi di Matera si è resa disponibile a ristrutturare una serie di chiese rupestri, che sono state poi affidate in gestione a questa cooperativa.
L’idea allora è quella di creare in ogni territorio diocesano un propulsore, un enzima generante imprenditorialità giovanile. Questo è il senso del Progetto Policoro, che diventa esperienza di Chiesa in uscita laddove questi giovani si mettono a disposizione di altri giovani che possono essere anche lontani dalla fede. Attraverso le loro competenze gli “animatori di comunità” diventano così un punto di riferimento e di evangelizzazione. Un’esperienza bella e necessaria, che la nostra Chiesa locale sta valutando di far sbocciare anche a San Miniato.