San Miniato, cappella del Seminario, 16.3.2023

La meditazione del Vescovo al ritiro del Clero

+ Giovanni Paccosi

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 21)

Dopo questi fatti, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaele di Cana di Galilea, i figli di Zebedeo e altri due discepoli. Disse loro Simon Pietro: “Io vado a pescare”. Gli dissero: “Veniamo anche noi con te”. Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla.

Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: “Figlioli, non avete nulla da mangiare?”. Gli risposero: “No”. Allora egli disse loro: “Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete”. La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: “È il Signore!”. Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare. Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri.

Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: “Portate un po’ del pesce che avete preso ora”.  Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò. Gesù disse loro: “Venite a mangiare”. E nessuno dei discepoli osava domandargli: “Chi sei?”, perché sapevano bene che era il Signore. Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce. Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti.

Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?”. Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene”. Gli disse: “Pasci i miei agnelli”. Gli disse di nuovo, per la seconda volta: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami?”. Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene”. Gli disse: “Pascola le mie pecore”. Gli disse per la terza volta: “Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?”. Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: “Mi vuoi bene?”, e gli disse: “Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene”. Gli rispose Gesù: “Pasci le mie pecore. In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi”. Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: “Seguimi”.

Pietro si voltò e vide che li seguiva quel discepolo che Gesù amava, colui che nella cena si era chinato sul suo petto e gli aveva domandato: “Signore, chi è che ti tradisce?”. Pietro dunque, come lo vide, disse a Gesù: “Signore, che cosa sarà di lui?”. Gesù gli rispose: “Se voglio che egli rimanga finché io venga, a te che importa? Tu seguimi”. Si diffuse perciò tra i fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto. Gesù però non gli aveva detto che non sarebbe morto, ma: “Se voglio che egli rimanga finché io venga, a te che importa?”.

Questi è il discepolo che testimonia queste cose e le ha scritte, e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera. Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere.

 

 

Siamo in Quaresima ma vi invito a proiettare il nostro sguardo al di là dell’abisso doloroso della Settimana Santa, che si avvicina velocemente, non per scansare la croce – che non si può comunque evitare – ma perché il senso del cammino, anche del più difficile e scosceso, è la meta. È la meta verso cui andiamo, che rinnova la nostra energia lungo la strada ciottolosa di ogni giorno («Cresce lungo il cammino il suo vigore, finché compare davanti a Dio in Sion»)[1]. E la meta è la resurrezione.

Vorrei riflettere con voi sul nostro essere preti (non su ciò che facciamo in quanto preti o sulle difficoltà che dobbiamo sempre affrontare) alla luce del capitolo 21 di Giovanni, che conclude il suo Vangelo, fra l’altro chiarendo a noi lettori che se si dovesse scrivere quel che Gesù ha fatto non basterebbe il mondo a contenere i libri che si dovrebbero scrivere. Se lo conclude così è perché ritiene di aver detto tutto quello che serviva dire.

Siamo dunque dopo la resurrezione, i discepoli sono tornati in Galilea e la loro esistenza per quaranta giorni – quaranta giorni di festa dopo la quaresima della passione – è stata piena della gioia di vedersi apparire, in circostanze sempre inaspettate, Gesù. A volte appare a porte chiuse, a volte lo vedono e non lo riconoscono, è un viandante, un giardiniere: forse Gesù vuole abituarli a lasciarsi sorprendere dalla sua presenza nei fratelli più inaspettati?

«Ogni sconosciuto, ogni povero mendicante, poteva all’improvviso mostrare il dolce volto del Signore. Ogni istante, anche il più banale, poteva diventare l’istante della sua presenza»[2]

C’era con loro anche Maria piena di gioia, ce la possiamo immaginare, e anche a lei, secondo un’antica tradizione, cara a Sant’Ignazio di Loyola, era apparso Gesù appena risorto.

In Perù, nella chiesetta di San Tommaso Apostolo a Rondocan, un paesino a 3500 metri, sperduto tra le Ande, c’è un quadro del pittore cinquecentesco Bernardo Bitti, un Gesuita di Camerino considerato il padre della pittura barocca nel Nuovo Mondo e che qui quasi nemmeno si conosce, che rappresenta quel momento:[3] Gesù entrando da sinistra, quasi si libra ancora in una stanza col pavimento a mattoni, e Maria si protende per abbracciarlo, mentre degli angeli gettano dall’alto fiori, rose, garofani e gigli[4], su una scena in cui però tutto lo spazio intorno è colmato di persone: sono i progenitori di Maria e di Gesù che egli ha liberato dagli inferi: Si riconoscono bene Adamo ed Eva, Abramo, Mosè, Davide. Che bello immaginare quel momento in cui la morte non regge più con le sue inferriate e Gesù libera noi prigionieri come loro.

Era apparso. Aveva insegnato, aveva risposto alle loro domande. Erano certi e lieti: era la scoperta quotidiana che la Presenza di Gesù rendeva ogni cosa, ogni attività diversa, più intensa, più vera, perché era più chiaro che tutto parlava di Lui, come segno, come domanda, come dono. Anche la loro vocazione era di nuovo scoperta come dono misterioso di una creazione nuova. Chiamati dal nulla all’esistenza per misericordia di Dio, ora era più chiaro che la chiamata di Gesù a stare con Lui era proprio una nuova creazione, una trasfigurazione di tutto. Come dirà San Paolo qualche anno dopo: «E Dio che disse: Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo»[5].  «La gloria di Dio è l’uomo vivente» dice Sant’Ireneo[6], e loro erano vivi pieni di certezza e di gioia con Cristo.

Eppure nel cuore di Pietro non poteva passare il dolore del proprio tradimento. Stava lì come un macigno e possiamo immaginarci come avrà guardato Gesù quando era apparso davanti a loro: non gliene parlava, ma il macigno era lì. Sicuramente si sentiva l’ultimo dei suoi amici e soprattutto doveva sentirsi così meschino davanti a Giovanni: Giovanni era stato sempre accanto a Gesù, nel processo, nella casa del sommo sacerdote, non aveva lasciato mai Gesù fino sotto la croce. Il discepolo che Gesù amava, ma a ragione, lui si che gli voleva bene.

Pietro invece pensava alle sue promesse non mantenute: «darò la vita per te… non ti abbandonerò mai…» e invece era caduto. Ma, con tutto questo peso dentro, era di Gesù, anche se non se lo meritava. Era la sua penitenza, la sua gioia dolorosa. Magari pensava che ormai Gesù gli avrebbe ritirato, giustamente la promessa del primato. Forse si immaginava che sarebbe stato più giusto affidarlo all’unico fedele davvero, a Giovanni. Quasi lo preferiva, avrebbe potuto seguire Gesù da misero com’era, da ultimo dei suoi amici, da povero.

Fu lui a dire: «Io vado a pescare». Tante volte ho pensato che quel ritorno alla vita di prima fosse come il rassegnarsi a una parentesi chiusa. Le cose belle durano poco, e dopo tre anni così impressionanti tornavano al loro buco, a quel lago duecento metri sotto il livello del mare, all’orizzonte limitato di prima, fatto di cose sapute e misurate. MI venivano in mente le parole di una canzone di Lucio Dalla, che parla di un giovane marinaio e di suo padre che spegne in lui i desideri di altri mari e altri orizzonti: «Fu una sera di gennaio/ che mio padre mi portò/ su una barca senza vela/ che sapeva dove andare: a gettare la mia rete dietro al faro./ Poi mi disse: ”Figlio mio/ questa rete è la tua vita/ manda a fondo tutti i sogni/ come un giorno ho fatto io»[7].

Ma forse invece era un modo di chiedere che potesse ricominciare tutto, che si rinnovasse nel presente quello che era successo all’inizio, quando Gesù era comparso sul lago e l’aveva affascinato parlando la sua lingua, quella del pescatore. Quel giorno della pesca miracolosa, in cui aveva sentito tutta la sproporzione tra lui e Gesù («Signore, allontanati da me che sono un peccatore»[8]) e aveva cominciato ad amarlo e seguirlo. Forse sperava questo, pregava per un principio nuovo di tutto.

La preghiera più vera, anche per noi, è che possa accadere un nuovo inizio, ed è così importante che tornando col pensiero al nostro primo incontro, chiedendo che riaccada ora, proprio nelle circostanze monotone della nostra quotidianità.

A quella domanda di un cuore addolorato nel ricordo del suo peccato, Gesù risponde. Riaccade l’inizio. Anche noi abbiamo vissuto innumerevoli volte la sorpresa di vederci accarezzati dalla misericordia di Gesù che improvvisamente illumina tutto.

La pesca miracolosa, di nuovo come il primo giorno. «È il Signore!» E Pietro si butta nell’acqua, lui non può aspettare, e Gesù li attende, li accoglie nella brezza del primo mattino. Come l’avrà guardato Pietro, quell’uomo da quando era entrato irrompendo nella loro esistenza, avevano seguito nella familiarità di un’amicizia e nello stesso tempo con la coscienza sempre più profonda del Suo Mistero: «Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente»[9] aveva detto una volta, forse ripetendo senza capire fino in fondo parole di Gesù. Ma ora era lì davanti a loro dopo essere morto, dopo aver resuscitato. Aveva le ferite nelle mani, nei piedi, nel fianco, che non permettevano dimenticare quello che era successo.

Pietro lo guardava in silenzio, ma Gesù lo chiama, e non lo chiama Pietro: «Simone figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?» tre volte. «Signore tu sai tutto, tu lo sai che ti voglio bene». Alla fine resta solo questo amore disarmato, senza nessuna pretesa. Qui siamo interrogati profondamente, e questo credo possa essere davvero un esercizio quaresimale. Il nostro amore a Gesù può essere che lo diamo per scontato, che facciamo tante cose per Gesù, da mattina a sera impegnati a fare cose in suo nome, a dare la vita per la sua Chiesa. Non ci risparmiamo (o spesso invece ci risparmiamo…) ma è fare le cose in nome suo ci lascia vuoti se non è amare Lui, e riconoscersi voluti bene. È un rischio grande per noi preti. Quante volte diciamo Tu a Cristo?

Ma forse Pietro, al sentirsi ripetere tre volte «Mi ami… mi ami… mi vuoi bene», non si sentiva tanto inadeguato – gli voleva bene davvero – come nel sentire Gesù che gli diceva «Pasci le mie pecorelle». Dopo tutto il tradimento, e quelle tre volte che tornavano… Come è che proprio io debba guidare la tua Chiesa? Io sono così traditore, così peccatore… Era nata in lui una nuova umiltà, sincera e così cosciente del suo essere nulla. La seconda lettera ai Corinzi, nel versetto seguente a quello citato prima dice: «Però noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi»[10]. Pietro si sentiva così indegno.

Quando dice a Gesù: «Signore, che cosa sarà di lui», forse non era solo una curiosità, ma come dire: ma perché metti me a capo della tua Chiesa e non lui? Lui è meglio di me, lui non ti ha tradito, lui è più intelligente, lui è giovane, a lui hai affidato tua madre! Lui potrebbe essere una vera guida per il tuo popolo, lui ti assomiglia.

«A te che importa? Tu seguimi!» Che conforto per noi, quando ci sentiamo inadeguati, poco carismatici, poco spirituali eppure Lui ci ha chiamati, Lui ci ha scelti per guidare la Sua Chiesa. Lo dice in modo chiaro don Barsotti: «Dio ha voluto aver bisogno della nostra povertà. Non vi è nulla di più grande, nulla che veramente ci possa commuovere di più di questo amore di Dio, che non soltanto ha voluto donarsi a noi per essere nostro, ma ha voluto chiederci ed accettare anche la nostra umanità, la nostra povertà, quasi ne avesse bisogno per l’opera sua» e più avanti nello stesso testo, aggiunge: «La proporzione infinita che vi è tra quello che siamo e la missione che Dio ci ha affidato, viene colmata dalla sua misericordia… nella misura in cui noi crediamo»[11].

«Seguimi». Non si tratta di essere i numeri uno, ma coloro che seguono Gesù. Costruiamo di più la sua Chiesa seguendo, nell’unità, che con tutte le nostre vere o presunte genialità. Ma è proprio seguendo Gesù nel volto concreto della sua presenza nella storia, la Chiesa, e la chiesa di ora non quella che in un certo momento ci è piaciuta di più, che si diventa geniali: per esempio, se seguiamo il Papa Francesco, che non è così comodo da seguire e a volte anche da capire, cambiamo. Cambiamo noi, non tanto le cose da fare, ma magari vediamo che c’è una urgenza tra i vari impegni da mettere prima di un’altra, e impariamo uno sguardo nuovo sul mondo e sulla Chiesa. Ho conosciuto dei teologi che prima di Francesco si scagliavano contro coloro che non obbedivano al Papa, dicendo che fare così è mettersi fuori della Chiesa, perché il papa è il Vicario di Cristo, e che ho sentito poi parlare come se il magistero del Papa si fosse fermato a Benedetto (che è stato una grande grazia per tutti noi), come se si potesse vivere e guidare la Chiesa senza seguire il Papa. Seguire la Chiesa, seguire il Papa e questo ci porta a seguire Dio che ci parla nella stessa realtà, che semina i segni della sua presenza e ci chiama a riconoscerlo ovunque accade. La passione per ascoltare, la sinodalità come forma del nostro operare da pastori, è un’educazione a seguire Lui aprendoci sempre più in particolare ai poveri e ai deboli, che ne sono il volto concreto e quotidiano, e così Lui può donarci, se vuole, la pesca miracolosa del nuovo inizio.

L’umiltà vera, quella di Pietro, è da riconquistare ogni giorno, perché sennò ci adagiamo, non nell’abbandono alla Sua grazia e alla Sua misericordia, ma nel tentativo, un po’ borghese, di non lasciarci toccare più di tanto dai problemi, di avere spazi in cui “stacchiamo la spina”. Ma staccare la spina è un po’ immagine di una eutanasia… di una morte della nostra povera umanità che riceve tutta la sua (unica) grandezza chiamata da Gesù.

Che ci ritorni in mente allora il volto glorioso di Gesù, ma anche le sue mani ferite, la Sua passione che continua e che siamo chiamati a completare con il dono di noi stessi, senza risparmio. Da quei giorni, Pietro e gli altri, pieni dello Spirito, andarono nel mondo e noi che ne siamo i collaboratori, con la stessa coscienza del nostro nulla, chiediamo di essere, come loro e uniti a loro nel sacramento del sacerdozio, strumenti ora della Sua misericordia per ogni fratello e sorella.

 

+ Giovanni Paccosi

» Intervento al Ritiro del Clero

 


[1] Sal 84,8

[2] Mauro Giuseppe Lepori, Simone chiamato Pietro, Marietti 2004, p. 111. Molte delle riflessioni che svolgo le devo alla lettura di questo libro piccolo e splendido.

[3] Ecco il riferimento di un articolo reperibile on-line della storica dell’arte peruviana Andrea Giuliana Tejada Farfan, che ha studiato i quadri di Bernardo Bitti in Rondocan, ricostruendo la storia della loro realizzazione e di come sono arrivati in quella chiesetta di paese. Cfr. Andrea Giuliana Tejada Farfan, La aparición de Cristo resucitado a su madre, de Bernardo Bitti, https://revistas.urp.edu.pe/index.php/Illapa/article/view/4422/5351

[4] Non a caso: la rosa rossa simbolo d’amore ma anche della passione, il giglio della purezza – quasi un rimando all’Annunciazione – , il garofano che ricorda con la sua forma i chiodi della croce (una leggenda dice che le lacrime di Maria sotto la croce si trasformarono in garofani).

[5] 2 Cor 4, 6

[6] Ireneo di Lione, Trattato contro le eresie, Lib. IV, 20

[7] Lucio Dalla, Sulla rotta di Cristoforo Colombo, in 4 marzo e altre storie, RCA Records 1976

[8] Cfr Lc 5, 8.

[9] Cfr Mt 16,16

[10] 2 Cor 4, 7

[11] D. Barsotti, Le responsabilità dei preti. Parole al Papa, San Paolo 2010, p. 71