Dramma Popolare 2020

«L’Abisso» di Davide Enia entusiasma il pubblico

di Andrea Mancini

Ci capita di scrivere di nuovo sul teatro di narrazione, ma se altre volte siamo andati a cercarne richiami e origini in quei racconti che san Bernardino teneva a Siena in piazza del Campo, nel caso di Davide Enia, non possiamo non riferirci al mitico Peppino Celano, straordinario cuntastorie palermitano, maestro di Mimmo Cuticchio che da tutta la vita ne racconta le gesta, mostrandone anche alcuni spezzoni filmati. Cosa si vede in questi materiali, se non quella specie di scuola della quale Davide Enia entra di diritto a far parte? Questo naturalmente in riferimento all’azione scenica, al suo modo di portare la parola, di muoversi e di usare la voce e il canto. Ci è sembrato insomma che la gestualità di Enia, il suo muoversi sotto un eccezionale percorso musicale, dovuto alle chitarre e ai suoni di Giulio Barocchieri, richiamino in modo evidente quelle azioni sceniche del cuntastorie palermitano. Celano usava la spada come segnale e come elemento scenico: semplicissimo ma anche simbolicamente potente. Davide fa lo stesso: la sua “spada”, è la borraccia alla quale beve, che gli serve per fermare il flusso verbale e farlo alla fine ripartire. Anche la sua gestualità, nei piedi, nelle mani, in parti del corpo che usa come sonorità, sono funzionali alla narrazione, servono a dare forza alla parola.

Possono sembrare a volte eccessivi, ma – anche stavolta la lezione di Celano ci viene in aiuto – sono in realtà modi per mantenere viva l’attenzione dello spettatore, che nel caso del cuntastorie era spesso analfabeta, aveva bisogno di una serie di artifici, di suggerimenti per mantenersi sveglio, dopo un giorno di lavoro. Dunque anche alcune parti ripetute, per garantire – anche qui – comprensione e attenzione per la storia. Chissà se anche le ripetizioni di Enia nascono da questo intendimento, oppure sono semplici artifici, sì perché qui oltre alla forza del narratore, occorreva un grande scrittore, con una serie di riferimenti letterari (ad esempio il magistrale «La frontiera» di Alessandro Leogrande, Feltrinelli 2015, anche quello sugli stessi temi, con una identica forza narrativa, ma anche teatrale). Sono tante le pagine splendide che Enia scrive sulla tragedia che ogni giorno si svolge sull’isola di Lampedusa, quelle stesse pagine che poi interpreta in scena. Siamo davanti a un formidabile maestro, i premi che ha vinto sono così tanti e importanti, che sarebbe senz’altro sbagliato dire che avremmo strettito un po’ certe parti.

L’entusiasmo del foltissimo pubblico presente dice appunto il contrario. La narrazione di Enia mischia la storia con la sua vicenda personale, lui è curioso di un mondo talmente offeso da provocare il vomito, piccolo uomo davanti al crollare di qualsiasi certezza, poeta di piccole vicende solo apparentemente private. Ci sono il padre “mutolo”, perché parla pochissimo, la madre che gli manda ottanta chili d’arance, così che Davide starà tre giorni a farne marmellata, la sua compagna, che gli dice di smetterla e di risolvere i suoi problemi, poi lo zio che forse morirà o che magari muore, ma solo dopo aver incontrato l’altro, un uomo venuto di là dal mare e il suo delicato gesto di preghiera. Ancora una volta grazie alla Fondazione Istituto del Dramma Popolare, che ormai da qualche anno ha in atto un rinnovamento che potrà portarla lontano, anche con performance come quella a cui abbiamo assistito l’altra sera. Pubblico – l’abbiamo già scritto – giustamente esaltato.

Foto: Danilo Puccioni e Andrea Sgherri