(Ap 21, 9b-14; Sal 121; Eb 12, 18-19.22-24; Gv 4, 19-24)
«Viene l’ora, ed è questa, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità» (Gv 4,23). Con queste parole Gesù ci vuol forse dire che tutto questo – la nostra cattedrale, l’arte – non ha valore? Cioè che la bellezza esteriore o i simboli, i segni che gli uomini hanno sempre utilizzato per mettersi in rapporto con Dio – quello che si chiama il sacro, la sacralità dei luoghi – non ha più senso? Beh, da un certo punto di vista anche questo è vero. Oggi viviamo in una società che non è più capace di leggere i simboli. Io vedo la cattedrale dalla mia finestra e normalmente gli unici che ci entrano sono i turisti che guardano da tutte le parti, talvolta sembra non sappiano neanche dove si trovino; riescono – sì – a cogliere la bellezza, perché questa bisognerebbe essere insensibili per non vederla, ma non ne capiscono il senso.
E forse anche noi non abbiamo più la percezione della tradizione che nella storia ha generato tutti i gesti, i riti che a volte sentiamo un po’ pomposi, oppure che trasformiamo in qualcosa di esteriore senza coglierne il valore profondo. È vero, siamo passati da una società dei simboli, del sacro, via via sempre più fino a una mentalità dove il linguaggio simbolico non si riesce più quasi a comprendere, perciò certi gesti, certi segni bisogna spiegarli; ma se un simbolo lo si deve spiegare vuol dire che non serve, il simbolo va intuito non spiegato. Anche la cattedrale ha questo valore. Colpisce pensare, per esempio, che i primi cristiani, appena Costantino dette loro la libertà di edificare le loro chiese, non ripresero il modello dei templi delle religioni antiche, ma usarono come modello delle loro costruzioni, che dura fino anche a questa chiesa, la «basilica».
La «basilica» non era un luogo di preghiera, era un luogo di mercato, di tribunali, di uffici pubblici e aveva proprio questa forma che ha anche la nostra cattedrale. I primi cristiani la ripresero proprio perché in essa non si doveva vivere la dimensione del sacro come era vissuta dagli uomini antichi, con il timore verso un Dio lontano che bisogna cercare di “rabbonire” e al quale possono rivolgersi solo certe persone specializzate – i sacerdoti – perché chiamati a esserne mediatori. Nei tempi antichi nessuno entrava dentro i templi, solo i sacerdoti potevano farlo. La gente stava fuori. Ma Gesù ha portato una novità totale. Non è più il Dio lontano, ma il Dio vicino. E il suo corpo vivo siamo noi, per cui quando nel quarto secolo i cristiani dovettero pensare a una forma per le loro chiese, pensarono a un luogo dove si mantenesse il senso simbolico, ad esempio la fila delle colonne che ci porta fino a Gesù, rappresentato dall’altare e poi anche dall’immagine del crocifisso, ma usarono una forma che permettesse alla Chiesa vera – che siamo noi -, la Chiesa viva, di essere visibile e compiere i suoi gesti e cantare come cantiamo stasera, e lodare Dio e ringraziarlo per la sua presenza nel Sacramento dell’altare.
Cosicché tutto è ripreso: l’altare per l’offerta dei sacrifici cruenti al Signore diventa la tavola. È ancora altare, ma diventa la tavola su cui Gesù ci dona se stesso. E così il sacerdote non è più l’esclusivo intermediario con Dio, ma colui che rappresentando Gesù offre il pane e il vino che ci fa diventare tutti corpo e sangue di Gesù, per portarlo dentro il tempio quotidiano che è la nostra casa, che è il luogo del lavoro, che sono i luoghi dell’incontro delle persone. E questo canto, maestoso e bello, che possiamo rivolgere a Dio nella liturgia, deve diventare il canto quotidiano di quella letizia semplice di chi è pieno di gioia, perché il Signore ci ha salvato e perciò guarda tutto e tutti, ogni persona, cercando di riflettere quell’amore che prima di tutto ha raggiunto noi, nello sguardo amoroso del Signore che si piega sulla nostra vita.
Allora anche l’immagine dell’Apocalisse, di questa città santa vestita come una sposa (Ap 21,2), è l’immagine, sì, di questi templi ricoperti di pietre preziose, ma è soprattutto simbolo di noi. È questa la cosa che dovremmo spiegare ai turisti quando vengono qui: la bellezza di questo luogo è solo un rimando alla bellezza che è possibile nella vita di ognuno di noi se accogliamo Gesù. Come qui adesso, dove Gesù è presente nell’Eucaristia, così nel nostro corpo vivo, fra di noi, nell’unità della Chiesa; ma anche nel nostro corpo personale: noi siamo chiamati a diventare riflesso di quella bellezza infinita che è l’amore del Signore per ogni persona umana. Allora questa chiesa, la cattedrale da cui fluiscono i sacramenti, fluisce la vita della Chiesa, è come una sorgente la cui acqua deve arrivare da tutte le parti. E il canto che stasera riempie queste volte così maestose, deve diventare il canto quotidiano di una vita che cerca Gesù dentro gli occhi, dentro le mani, dentro i gesti delle persone che ci stanno accanto. Che il Signore ci conceda di lodarlo con questo canto, che è il canto che può far diventare armonia il mondo intero.