ARTICOLO

Verso il Sinodo sui Giovani

Don Michele Falabretti interviene a San Miniato alla Due-giorni del clero

L’annuale Due giorni del Clero, che si è svolta a San Miniato, presso il Convento di San Francesco, il 19 e 20 giugno scorsi, presieduta dal vescovo mons. Andrea Migliavacca, ha visto come relatore don Michele Falabretti, responsabile del Servizio nazionale di Pastorale giovanile. Al centro della sua riflessione le sfide e provocazioni che ci vengono dal modo in cui i ragazzi vivono e credono oggi. Sullo sfondo, il prossimo Sinodo dei Vescovi che ruoterà proprio intorno alla questione giovanile, a proposito della quale nelle diocesi sono già state avviate le consultazioni. «Parlando dei giovani – ha esordito il relatore finiremo inevitabilmente per parlare degli adulti, di noi come Chiesa, del nostro modo di vivere la fede. Infatti le nuove generazioni mettono sempre in discussione chi le precede». Partendo dalla distinzione tra «consegna della fede» e «vita di fede», don Falabretti ha notato come nelle nostre comunità siano forti i momenti fondativi, la consegna della fede nei Sacramenti dell’iniziazione cristiana, poi però la vita di fede deve passare attraverso la coscienza e la libertà di ciascuno. Ed è qui che l’esperienza dei giovani ci mette in crisi. Proprio perché i ragazzi sono sempre meno praticanti e chiedono di vedere la fede nello stile di vita quotidiano. Per le nuove generazioni «c’è un sorta di trasferimento dal festivo al feriale» – ha sottolineato don Michele -, c’è la percezione che «se la fede non serve per vivere allora non mi serve.

La fede infatti non si può ridurre a un’appendice, a una preghiera a fine giornata» o anche al semplice precetto festivo. Questa richiesta di autenticità caratterizza il modo di sentire di tanti pre-adolescenti e adolescenti: nel delinearlo, don Falabretti ha tenuto conto dei dati emersi nei quattro principali studi sociologici sulla religiosità giovanile usciti nell’ultimo decennio:  La prima generazione incredula (Armando Matteo, 2010),  Fuori dal recinto (Alessandro Castegnaro, 2013), Dio a modo mio (Istituto Toniolo – Università Cattolica, 2015) e Piccoli atei crescono (Franco Garelli, 2016). Tutte queste ricerche evidenziano che i ragazzi, anche se non vanno più in chiesa, mantengono dei forti agganci religiosi, il riferimento spesso è alla fede semplice e sincera dei nonni, ma si costruiscono un proprio immaginario religioso attraverso una ricerca che passa significativamente attraverso la rete.

La sfida lanciata oggi ai sacerdoti e alle comunità cristiane è questa: dove siete voi nell’età cruciale, quella tra i 10 e i 20 anni, in cui avvengono lo smantellamento e la ricostruzione dell’immaginario religioso personale? Molti giovani lamentano di non aver incontrato degli adulti capaci di consegnare, di raccontare, di far capire loro quanto l’incontro con Gesù Cristo sia stato significativo nella propria vita.

Il relatore ha descritto efficacemente il modo di pensare e di affrontare la vita adottato dai ragazzi, che può essere illustrato con l’esempio del telefono cellulare. Questa macchina complicatissima, ha spiegato don Michele, viene venduta quasi priva di istruzioni. Chi l’acquista deve provare e riprovare, scoprendo le varie funzioni. O al massimo chiedere aiuto a un amico che ha già quel modello di telefono. Questo stesso schema di comportamento è passato nel modo di affrontare la vita: i ragazzi sanno che devono provare e riprovare, possibilmente provare tutto o, al limite, confrontarsi con chi è nella loro stessa situazione. Un tipo di mentalità che chiaramente mette in crisi il compito educativo e di guida tradizionalmente rivestito dalla Chiesa. La sensibilità giovanile è inoltre condizionata da due schemi negativi che derivano dalla televisione: la fiction e il talent. La percezione della vita come una finzione, in cui si può sempre ricominciare, in cui ci sarà una nuova serie a riportare in scena i personaggi, anche quelli creduti morti; il sogno di vivere il classico quarto d’ora di celebrità, senza la prospettiva di una carriera a lungo termine; tutt’al più la ricerca di un’altra occasione, per vivere ancora dieci minuti sotto i riflettori.

Per chi propone la vita come chiamata, per chi parla di vocazione, di discernimento, di scelte, questo costituisce indubbiamente un ostacolo. Di conseguenza possiamo pensare che il Sinodo non servirà tanto a «capire i giovani» quanto, visti i giovani, a comprendere come devono essere i sacerdoti e che cosa devono diventare le nostre comunità cristiane. Le indicazioni offerte dal responsabile nazionale per la Pastorale giovanile hanno riguardato soprattutto i temi dell’ascolto e della generatività. «I giovani non accettano più di vedere figure di mediazione – è stata questa la considerazione di partenza – ma apprezzano chi è capace di ascoltare, accogliere, accompagnare, perdonare». Per questo, prima ancora che la proposta di contesti liturgici, sono importanti le esperienze forti di relazione, quelle che fanno «sollevare le domande». Altrimenti i sacerdoti rischiano di ridursi a erogatori di servizi religiosi e non educatori. In tutto questo è di vitale importanza il coinvolgimento della comunità degli adulti e l’alleanza tra le varie agenzie educative. «Non siamo infatti gli unici a fare educazione», ha puntualizzato don Falabretti.

don Francesco Ricciarelli