Editoriale

L’ultima Messa

di Francesco Fisoni

In quella sconvolgente apocalisse cinematografica che è «Salvate il soldato Ryan», a un certo punto Steven Spielberg incastona magistralmente un cammeo di struggente lirismo: il drappello di uomini che il capitano Miller (interpretato da Tom Hanks) sta guidando oltre le linee nemiche, trascorre la notte in una chiesa abbandonata. Qui il soldato Wade, mentre scrive alla famiglia di uno dei compagni caduti, racconta di quando sua madre era medico in ospedale e lavorava fino a tarda notte. «L’unico momento che aveva per parlare di qualcosa con me – dice Wade – era quando tornava. A volte tornava a casa prima e io fingevo di dormire. Lei restava in piedi sulla porta e mi guardava, e io sempre con gli occhi chiusi…». Poi, in lacrime, prosegue: «Sapevo che voleva solo informarsi sulla mia giornata, e che era tornata prima solo per parlare con me… ma io non mi muovevo, facevo solo e sempre finta di dormire… Non so perché lo facevo».

È un’esperienza comune, quasi banale, restituita su pellicola con rarefatta bellezza e che dice come la struttura cognitiva dell’essere umano è impostata su principi di economia psichica. In una parola: non siamo quasi mai capaci di percepire il reale valore delle cose, diamo facilmente per scontato quanto abbiamo e quanto ci accade. Era stata la grande intuizione di Heschel: «Circondati da meraviglie, abbiamo smarrito la meraviglia».

Accade anche con la cosa più sacra: se è a portata di mano, nella migliore delle ipotesi riceve un’attenzione relativa. Quando però quella stessa cosa, per una qualsiasi ragione, ci è tolta, ecco che tutto finisce sotto una luce inedita e malinconica. Questa in sintesi l’esperienza che molti mi stanno testimoniando in queste ore rispetto alla celebrazione eucaristica, di cui siamo digiuni dalla domenica scorsa.

Se questo maledetto virus, alla fine della partita che stiamo giocando, avrà avuto un merito, sarà stato proprio quello di averci fatto riscoprire il valore della Messa e soprattutto il tesoro enorme che è la possibilità di comunicarci, anche tutti i giorni, al corpo di Cristo. Non è scontato. Non è banale. Non accade ovunque. Proprio nei giorni scorsi, un fine commentatore ha intelligentemente scritto: «Quando potrò tornare a Messa, soffocherò sul nascere ogni titubanza, ogni pigrizia, ogni lamentela: ci andrò e basta. Anzi, mi recherò in chiesa svariati minuti prima e, inginocchiato, osserverò con rinnovato stupore le colonne, le volte e le statue del Duomo, in attesa che la celebrazione abbia inizio. E se la mia panca si affollerà di gente che mi stringerà in un angolo, non batterò ciglio. E se pure l’omelia sarà noiosa, l’ascolterò con più attenzione del solito. Perché nella mente avrò stampato un pensiero prima dimenticato: essere cristiani significa essere grati».

Ricordiamolo anche noi allora: credere è innanzitutto ringraziare.