Riflessioni

L’essenza della clausura

di Antonio Baroncini

Ognuno di noi, in questo periodo di pandemia, si è sentito privato di molte sue consuetudini che, per piacere o per necessità, lo impegnavano nel quotidiano.

Nella scala delle priorità, però, non tutte occupano un posto primario: sono quelle più personali, più intime, il cui desiderio non è mai molto visibile, ma sempre molto desiderato di poterlo soddisfare. A livello giornalistico non è consigliato di parlare di un argomento riguardante il proprio io, ma questa volta infrango le regole e desidero mettere in evidenza quello che mi è mancato, la cui assenza si è fatta sempre più pesante nel sopportarla: il non poter assistere alla Santa Messa in un monastero di clausura.

Il fascino del chiostro

Molte domeniche sono solito assistere alla liturgia della Messa nella splendida chiesa del Monastero di San Paolo in San Miniato e spesso in quella del Monastero agostiniano dell’eremo di Lecceto, a pochi chilometri da Siena.

Andare a Lecceto o a San Miniato, si potrebbe pensare, solo per soddisfare un desiderio di gita, di evasione per rompere la monotonia della settimana, ma non è così. Ciò che mi attrae, è la contemplazione, nel silenzio, della clausura nella sua realtà, della vita religiosa e comunitaria delle monache, delle loro pratiche di preghiera, dei loro canti angelici, che mi aiutano nell’assistere, con devozione, all’evento pasquale che la Messa ci rinnova. «Dio parla nel gran silenzio del cuore», è riportato in un piccolo quadretto appena entrati nella chiesa. Anche la struttura delle chiese, non molto grandi, sempre ben tenute in ogni loro angolo, ricche di pitture evocative di scene evangeliche, rese ammirevoli da floreali cornici pittoriche: il tutto aiuta alla concentrazione spirituale. Non manca l’organo, più o meno artistico e complesso, attraverso il suo suono, le voci, come per incanto, assumono una tonalità melodiosa e solenne, coinvolgendoti in una pace interiore di ascolto, di meditazione, da chiederti: «Credi veramente nella presenza di Dio? Ti senti di essere cristiano? Perché sei qui in questa chiesa?» La risposta viene sempre nell’osservare queste monache, queste donne, le quali, ad un certo momento della loro vita, decidono di andarsene da casa, non per tentare fortuna economica o finanziaria, ma per adorare Dio, nel suo grande mistero.

La risposta di una monaca

Chiudersi in un convento, lontano dalle relazioni con gli altri, privarsi di un lavoro professionalmente valido e soddisfacente, privarsi di una vita socialmente da vivere, può apparire una scelta egoistica, feci notare in un incontro, organizzato per coppie, alle due monache di Lecceto che lo presiedevano.

La risposta della madre superiora fu completa e condivisibile. «Vi riporto ciò che una nostra consorella monaca ha scritto su un suo libro riguardo a questo quesito che è quello che comunemente, ogni persona ci presenta. Il problema dell’uomo è l’individualismo, sempre presente nel matrimonio, nel lavoro, in monastero. Non si entra e non si rimane in monastero per se stessi, mai. Certo, la clausura vista con solo occhi umani è follia o una raffinata forma di egoismo. La clausura è stato per me il “modo” concreto per raggiungere tutti. Ogni altra forma di consacrazione mi appariva limitata, circoscritta. Radicalità dell’amore per il Signore e amore per la Chiesa, per l’umanità vanno insieme. Una vita apparentemente “persa” per Lui, per potere in Lui raggiungere tutti. È un paradosso, come è un paradosso che Cristo abbia salvato l’uomo dall’alto di una croce. Il cuore di una monaca non è più solo un cuore di donna, fatto per accogliere e donare l’amore. Al di là delle debolezze umane, diventa il campo del mondo, il campo di Dio, in cui, sotto i suoi occhi, avvengono le fatiche e le lotte di tutti. Nulla di ciò che è umano ci è estraneo. Quando — non importa se si vedrà solo in cielo — una piccola speranza fiorisce all’improvviso nel cuore di un fratello, dietro c’è un cuore che si è aperto per tutti. C’è mai stato un tempo in cui si sia più sentito il bisogno di questo? Oggi l’uomo cerca la vita, quella vera, ha sete di bellezza autentica, della positività del reale. La notte è giunta troppo in là». Questi pensieri entrarono nel mio animo e allargarono la mia visione e interpretazione della vita claustrale. La clausura mi apparve una fonte di santità, non più isolata, non più chiusa dentro grate di un monastero, ma aperta, libera e per tutti invadente nei propri cuori. Vivere una giornata in comunione nella preghiera in un monastero, suscita forza, entusiasmo, coraggio, sicurezza, insieme a pace e serenità. Ti predispone, questo vale per tutti, credenti e non credenti, incoraggiandoti, a proseguire nel tuo cammino di fede, di lealtà, di speranza verso quel campo, «il campo di Dio», dove l’uomo gioisce, fatica, lotta e soffre. Ecco perché ho sentito la mancanza delle celebrazioni della Messa in questi luoghi!

L’esperienza di un padre

Ricordo un episodio particolare, vissuto nel monastero di Lecceto. Una domenica, con una coppia di amici, si decise di assistere alla Messa nella chiesa del monastero. Partimmo di buon ora e giungemmo in loco insieme ad un’altra coppia, più anziana di noi. Ci scambiammo i saluti di buona mattina ed insieme entrammo nella chiesa dove già le suore recitavano i salmi. Una di queste fece un sorriso alla coppia che ci accompagnava. Durante la pausa che precedette la Messa, la coppia si avvicinò ai banchi delle monache, da cui una di queste si staccò per salutarla. L’uomo, ritornato al suo posto nella panca, si rivolse a me e disse: «È mia figlia! Ogni domenica veniamo a trovarla, è la nostra unica figlia. Dopo la laurea in lettere, è entrata in clausura». Due lacrime scesero sul volto dell’uomo, dall’apparenza rude e forte. Faceva il fabbro in un paese limitrofo, ma dalla sua voce e dal suo comportamento appariva tanto gentile, cordiale e buono. Terminata la celebrazione della Messa, ci chiese se volevamo pranzare con lui e con la sua signora, nella saletta adiacente alla cucina del monastero. È un luogo non accessibile a tutti, solo ai familiari o ad invitati particolari. Il suo invito fu, nell’emozione, da noi accolto. Chiese l’autorizzazione alla madre superiora che gli fu concesso. Il pranzo fu un incontro indimenticabile e il colloquio che si intavolò, ebbe quasi sempre come oggetto, sua figlia Chiara. La frase più incisiva che il signor Giulio disse fu: «Abbiamo sofferto molto, abbiamo pianto tanto nel pensare che la nostra Chiara, una ragazza piena di vita, brillante studentessa, amorosa e rispettosa verso i suoi genitori, ci avesse lasciati per il monastero di clausura. Non capivamo il perché: sempre allegra, sempre indaffarata per le sue cose, sempre vivace con i suoi amici, piena di iniziative. Ora dopo tre anni, ne siamo felici ed orgogliosi. Non abbiamo più una sola figlia ma altre dieci. Il Signore l’ha tolta dalla nostra vita, per donarla a sé e perché, attraverso questo atto, possa aiutare tante altre persone ad incontrarlo nella sua vera essenza di amore». Tra queste persone, ci sono anch’io!