Domenica 14 Novembre

5° Giornata mondiale del povero

La riflessione del direttore di Caritas San Miniato, don Armado Zappolini

Stare accanto ai poveri non è mai banale. Come metterli al centro del nostro modo di essere Chiesa? Per prima cosa, dice don Zappolini, guardando il mondo con i loro occhi, un vero cambiamento di prospettiva. Occorre poi capire che la povertà, come scrive il Papa, non è frutto del destino ma conseguenza dell’egoismo e va prima di tutto contrastata nella sua origine. Il ruolo strategico delle Caritas nei nostri territorio.

 

Papa Francesco richiama continuamente la Chiesa a rafforzare la propria vicinanza ai poveri ed a fare di essi il cuore della propria presenza nel mondo. Il motivo per cui ogni anno ci invita a celebrare una Giornata mondiale dei poveri non è infatti soltanto quello di rafforzare le opere ed i servizi in loro favore, ma soprattutto quello di metterli al centro del nostro modo di sentirci Chiesa.

Queste due dimensioni si devono sempre più intrecciare e meticciare, per rendere sempre più visibile quella «chiesa in uscita» che tanto ci propone il Santo Padre.

Nelle opere e nei servizi a favore dei poveri le chiese di tutto il mondo sono da anni in prima linea: dalle metropoli piene di solitudini e di abbandoni dei paesi ricchi ai territori più desolati e poveri della terra. Ci sono punti di ascolto, residenze di soccorso, distribuzioni di medicine e di cibo, piccoli ospedali e presidi socio sanitari che nascono dal volontariato dei cristiani, continuando quella bella tradizione che ha fatto nascere dal passato anche in Italia e in Europa le Misericordie, gli ospedali, i banchi di Mutuo soccorso. Nei miei numerosi viaggi di volontariato internazionale con l’Associazione Bhalobasa e la rete delle Comunità di Accoglienza (Cnca) ho potuto incontrare tanti di questi presidi di carità, spesso in villaggi nei quali non c’era nemmeno un sacerdote: semplici fedeli, catechisti, comunità religiose che si mettevano in nome del vangelo e senza nessuna volontà di induzione alla conversione a servizio di popolazioni abbandonate a se stesse, prive di ogni supporto e dignità.

È stato bello poter incontrare nella generosità di questi fratelli e sorelle della fede tanta forza di testimonianza e tanta purezza di vangelo. Purtroppo queste esperienze non sono mai state sufficientemente valorizzate all’interno della Chiesa e, molte volte, chi le metteva in atto si trovava marginalizzato. Ricordo bene una storia. Un sacerdote incontrato alcuni anni fa in una diocesi del nord est dell’Italia aveva aperto gli ambienti della propria parrocchia per accogliere alcuni ragazzi di strada; era molto apprezzato dai suoi parrocchiani e guidava una comunità in un nuovo complesso parrocchiale nel centro della città. Davanti alle proteste di alcuni fedeli che vedevano in questi ragazzi un disturbo, il vescovo gli ha chiesto di chiudere questa esperienza, ma lui ha preferito fare un’altra scelta ed ha deciso di vivere il suo sacerdozio accanto a loro, in una comunità di accoglienza nella quale ha trascorso da prete tutta la sua vita.

Stare accanto ai poveri non è mai banale! Tante opere nate nella tradizione della chiesa hanno raggiunto un prestigio veramente importante e sono ancora oggi un riferimento di valori e di qualità sia nel campo sanitario che in quello sociale e culturale.

La scelta però più significativa fatta nella Chiesa su questo ambito è stata quella della Caritas: uno dei tanti frutti belli del Concilio Vaticano II, nato dalla intuizione del grande papa Paolo VI, che da 50 anni è presente nella chiesa italiana e da 49 anni nella nostra diocesi. La Caritas ha permesso di dare un volto diffuso alle tante opere di vicinanza ai poveri, facendole nascere in ogni diocesi ed in molte parrocchie, accanto alle chiese, nei locali delle canoniche e degli oratori, offrendo forse per la prima volta alla dimensione della Carità una sede istituzionale nella chiesa e non delegandola più soltanto alle vecchie “Opere Pie” o alle associazioni di fedeli. Oggi la Caritas ha una consolidata dimensione internazionale, collabora con le più importanti agenzie umanitarie e le istituzioni, è un ponte di dialogo e di vicinanza con le altre grandi religioni dell’umanità. Nella nostra diocesi i 17 sportelli di ascolto, le mense ed i dormitori notturni, i centri di distribuzione alimentare, gli sportelli sul gioco d’azzardo, gli empori della solidarietà, i lavori socialmente utili sono alcune delle attività attraverso le quali la nostra chiesa locale vive il suo servizio nel territorio e la sua testimonianza evangelica.

Davanti a tutte queste azioni concrete ci sarebbe comunque da domandarsi quanto siano condivise e sostenute dalle singole comunità parrocchiali, dai consigli pastorali, forse anche dagli stessi parroci; a volte noi volontari Caritas abbiamo la sensazione di esercitare una delega, piuttosto che un mandato, di essere “quelli che lo fanno perché sono fissati con i poveri” piuttosto che le prime linee di una comunità che ne condivide il senso. Nel prossimo anno quando, in concomitanza con l’importante giubileo dei 400 anni della diocesi, faremo anche un ricordo dei 50 anni della Caritas avremo l’occasione per risvegliare questa attenzione. Ma cosa vuol dire invece mettere i poveri al centro del nostro modo di essere chiesa? Per prima cosa è un invito a guardare il mondo con gli occhi dei poveri. Non è banale, è un vero cambiamento di prospettiva. Il mondo visto da sotto, non appare come quando lo si vede da sopra. Basta andare in una qualsiasi metropoli o città del nord o del sud del pianeta: ci sono i quartieri residenziali e le bidonville, le strade pulite e ordinate e gli slum con le fogne a cielo aperto.

Dobbiamo liberarci da quell’atteggiamento buonista e assistenziale che ci fa osservare i poveri nel loro tugurio e domandarci invece come loro vedono noi ed il nostro modo di vivere. E farci disturbare da questo loro sguardo. Nel nostro rapporto con i poveri dobbiamo fare giustizia anche nella memoria e nelle parole.

Ricordo un episodio che ho vissuto anni fa in Uganda, quando mi sono trovato ad inaugurare un ambulatorio in una scuola di un grande villaggio alla periferia di Kampala. Gli insegnanti avevano ben organizzato le centinaia di studenti presenti, che con canti e cerimonie esprimevano tutta la loro riconoscenza. Ho provato disagio davanti a tutto questo ed ho spiegato loro che non dovevano considerare noi europei come dei benefattori che venivano a portare dei doni: ciò che noi davamo loro era solo una parziale restituzione di quanto i nostri avi avevano depredato e rubato nella loro terra. Le parole vanno cambiate, il giudizio storico va cambiato.

Mettere al centro i poveri vuol dire quindi, con le parole di papa Francesco, anche «percorrere la via della giustizia perché le disuguaglianze sociali possano essere superate e sia restituita la dignità umana così spesso calpestata»: il nostro silenzio contro le ingiustizie ed i sistemi economici che le provocano ci rende complici di chi le esercita e non basteranno certo le elemosine che potremo fare per mettere a posto la nostra coscienza.

La povertà infatti – dice ancora papa Francesco – «non è frutto del destino, è conseguenza dell’egoismo» e va prima di tutto contrastata nella sua origine e non soltanto nelle conseguenze. Occorre perciò agire «un differente approccio alla povertà» che ci renda testimoni e profeti, uomini di azione e presenti nelle situazioni di fatica ma anche voci che si alzano per indicare le strada e denunciare le ingiustizie. Tutto questo ci renderà capaci davvero di incontrare nei poveri il volto di Gesù e di sentire che amarli vuol dire incontrare Lui e farci riempire dalla pienezza della sua vita e della sua gioia.