Editoriale

Europa dei numeri o delle persone?

di Francesco Fisoni

Ci sono numeri che nessuno ci dà e che dobbiamo cercare col lanternino, numeri di cui dovremmo seriamente preoccuparci. Nel 2018 gli italiani in condizione di povertà assoluta, hanno rotto la soglia critica dei 5 milioni di persone. Una cifra intollerabile, praticamente pari agli abitanti di una regione popolosa come il Veneto. Nel diluvio di cifre cui quotidianamente siamo esposti, forse soltanto quest’ultimo dato, e davvero pochi altri, meriterebbero una nostra seria e attenta riflessione. Anche perché stiamo parlando di numeri che nella realtà sono sciabolate sulla carne viva delle persone. In questo momento in Italia ci sono 2,7 milioni di disoccupati, cui vanno aggiunti altri 3 milioni di persone che il lavoro neppure più lo cercano e che quindi non sono contemplati nemmeno nelle statistiche. Si tratta dei cosiddetti scoraggiati. Quindi, ad essere onesti fino in fondo, noi abbiamo oggi complessivamente oltre 5,7 milioni di disoccupati. Attenzione adesso a questo nuovo numero: 9,1. Tutti gli anni ad aprile il Governo deve pubblicare il Def, il Documento di Economia e Finanza. Si tratta di un testo dove vengono annunciate tutte le politiche economico-finanziare di successiva attuazione. Da un po’ di anni a questa parte il Def riporta proprio il numero sopracitato (9,1%), connotandolo con una sigla anonima e impronunciabile (Navru). Questa cifra percentuale è il tasso di disoccupazione che, in base ai calcoli elaborati in sede Ue, il nostro governo può reputare normale di avere. Diciamola meglio: l’Europa chiede ad ogni Stato membro di non scendere sotto una certa percentuale di disoccupazione (si avete letto bene!), pena la maggiore circolazione di denaro che significa più diffuso benessere, con aumento dell’inflazione e conseguente perdita di competitività dell’Euro – valuta forte sui mercati finanziari internazionali. Ecco, io credo che una società che non si ponga come obiettivo quello della disoccupazione zero, ma codifichi come cosa normale e addirittura necessaria, mantenere livelli importanti di inoccupazione, rappresenti qualcosa che un Giovanni Paolo II, attingendo al suo armamentario concettuale, avrebbe denunciato senza troppe ambasce come «struttura di peccato». Qualcosa cioè non pensata per il bene della persona e della società umana. Costruire una bilancia dove su un piatto mettere una sorta di povertà tollerata e sull’altra la stabilità del valore dei titoli, dei depositi, dei derivati, e la stabilità del valore della moneta unica, ha del riprovevole. Se nessuno avrà il coraggio di porre queste questioni, allora «resterà sottinteso – secondo le parole di un europeista convinto come Franco Cardini – che l’Europa deve restare un comitato d’affari, dove si può discutere placidamente di quanta nocciola si può aggiungere al cioccolato senza trasformarlo in surrogato, ma dove non si può trattare dei problemi fondamentali delle persone».