San Miniato

Don Ruggini, forse il più importante uomo di cultura del ’900 sanminiatese

di Andrea Mancini

Un sacerdote che seppe sempre creare dibattito, fin da quando, nell’immediato dopoguerra, frequentava i «covi comunisti», andando cioè a dibattere di politica e di cultura dentro le Case del popolo del territorio circostante a San Miniato, ma anche più lontano.

Don Giancarlo Ruggini, dal 1948 al 1972 fu direttore dell’Istituto del Dramma Popolare di San Miniato, e può senza dubbio essere considerato la più importante figura culturale del Novecento non solo sanminiatese. Anche Mario Lancisi, il grande giornalista, tra l’altro autore di un libro su «I folli di Dio» – cioè sul cattolicesimo fiorentino – lo ha dichiarato co[1]protagonista di una importante stagione culturale, culminata con la forte testimonianza di don Milani, ma cominciata negli anni precedenti, con alcune straordinarie figure, amate nel mondo cattolico, ma aperte alla cultura in genere.

Ecco allora che un uomo come don Ruggini entra da protagonista in questo dibattito, a partire dalle pagine della Domenica, che ospitò alcuni suoi coraggiosissimi interventi, a partire dalla fine degli anni ‘40. Ci sembra insomma da recuperare tutta la sua memoria, ferma in fondo solo ad una piazza a lui intitolata, vicino alla Casa culturale di San Miniato Basso e a una serie di altre sporadiche iniziative, con un paio di libri, ormai vecchi di una quarantina d’anni. Ci sembrerebbe ad esempio ormai giunto il momento di realizzare una raccolta delle moltissime lettere conservate negli archivi che lo riguardano, scritte e ricevute da tanti dei protagonisti della cultura italiana di quegli anni. Ci sono decine di nomi importanti, cui potremmo far riferimento, da Giovan Battista Montini (il futuro Paolo VI) a Silvio d’Amico, e c’era anche una intensa corrispondenza con l’intellighenzia fiorentina, prima Papini, Tirinnanzi, Lisi, poi David Maria Turoldo, Mario Gozzini, Ernesto Balducci, Maurilio Adriani, che appoggiarono in ogni modo la sua ricerca intellettuale e teatrale, a partire appunto dal 1948, quando il Piccolo Teatro di Milano, Giorgio Strehler e Paolo Grassi, portarono a San Miniato, lo stupendo “Assassinio nella cattedrale” di Eliot. Uno spettacolo che attirò l’interesse critico (ma anche quello umano) di tutto il miglior mondo culturale, non solo italiano.

Don Giancarlo Ruggini era nato l’11 ottobre 1920 e vorremmo D intanto ricordarlo attraverso i suoi luoghi di lavoro. Il primo, quello pubblico, in parte esiste ancora, si trova nella sede del Crédit Agricole, in Palazzo Roffia a San Miniato. La stanza non grande, corrisponde ancora a quella di don Ruggini, anche se adesso ospita il direttore della filiale. Una stanza sostanzialmente di rappresentanza, arredata soprattutto dalla luce che arriva dalla bellissima valle sottostante. Alle pareti poche cose, forse solo un paesaggio di San Miniato, realizzato in legni intarsiati. Credo ci fosse già ai tempi di don Ruggini, che in più aveva incorniciato una serie di bozzetti degli spettacoli di San Miniato, dovuti a pittori locali, che negli anni hanno prestato la loro opera per la Festa del Teatro. Don Ruggini, aveva comunque anche un altro studio, stavolta privato, collocato nella canonica della chiesa di San Lorenzo a Nocicchio, a due passi da San Miniato, ma lontano dalle beghe della città. L’arredamento era stato progettato da Anna Braschi, allora giovane studentessa di architettura, nello stile che in quegli anni era in uso e che può ben essere rappresentato dai mobili realizzati da Giovanni Michelucci. Ho frequentato questo studio in quella che è stata la sua amorevole ricostruzione, voluta dalle due sorelle del sacerdote, in una stanza di un edificio del Comune di Empoli, allora vuoto e inutilizzato, che si trova all’angolo tra via Verdi e via Fabiani. A un certo punto, diversi anni dopo la fine dei miei studi, le sorelle Ruggini sono state costrette a smontarlo, dividendolo in diverse donazioni. Credo che la parte più preziosa, quella epistolare, sia stata destinata alla parrocchia di Sant’Andrea, sempre ad Empoli, ma purtroppo da allora non è stato più possibile reperirla. La stanza di Empoli aveva due finestre, una alle spalle della scrivania, una sul lato sinistro. L’odore di rinchiuso che percepivo entrando, non toglieva niente al fascino di quel luogo. Alle pareti non c’era niente, ma i cassetti erano ancora pieni di documenti e anche le librerie. Libri abbastanza generici, in un numero non troppo consistente, con parti sul teatro e con una notevole saggistica religiosa; qualche romanzo, pochi libri di poesia, qualcos’altro. Don Ruggini non era un intellettuale tout court, restava comunque un sacerdote. Era anche un uomo attento a lasciare, proprio in questa zona del suo archivio, la testimonianza del suo operare. Ripensandoci ora, mi pare che abbia come “dettato” il mio libro, soprattutto attraverso copie di lettere, scritte con una calligrafia chiara e decisa, nella quale esprimeva le difficoltà di un sacerdote impegnato nel realizzare un teatro dello spirito. Il suo archivio era conservato in un mobile, che ricordo di metallo, ma che forse era – come il resto – in legno tipo tek. In questo contenitore c’era la vita più privata del sacerdote, quella estranea alla conduzione del Dramma popolare, io l’avrei usata a piene mani per il mio libro, intitolato “La maschera e la Grazia. La politica teatrale dei cattolici attraverso le Feste del Teatro di San Miniato” (Bologna 1979).

Nella libreria c’era, tra l’altro, anche l’Enciclopedia dello Spettacolo, diretta da Silvio d’Amico, una serie di grandi volumi di colore rosso bordeaux, che hanno le sottolineature e le scritte autografe di don Ruggini, che mostrano quanto i libri avessero accompagnato la sua esistenza, consultati di continuo, come un importante punto di riferimento. Io ebbi in dono quei preziosi incunaboli, le sorelle vollero che fossero miei. Ero molto giovane e non mi pare di averle ringraziate abbastanza, anche se, da allora, hanno sempre accompagnato la mia attività di ricercatore e studioso di teatro e di cinema.

Ricordo ancora don Ruggini, seduto a quella scrivania, un uomo che appartiene ad una generazione che crede ancora nella parola e nei rapporti epistolari, nel valore di un documento o di una lettera, in modo cioè radicalmente diverso da quanto avviene oggi, quando tutto si lega all’effimera scienza elettronica. Lo vedo ancora, con un’aria gioviale, anche se un po’ burbera, che riporta i compiti di religione dei suoi amati studenti, ricchi – anche quelli – di singolari commenti, che dimostravano la serietà con cui quest’uomo d’altri tempi li leggeva. Certo anche questi saranno stati corretti alla sua scrivania in legno di tek. Mentre la morte l’avrebbe incontrata proprio a scuola, nella pausa di una delle sue seguitissime lezioni.