Il vescovo in Ecuador e sulla tomba di Romero

«Così abbiamo riscoperto la forza della teologia»

di Francesco Fisoni

Ben 6,7 milioni di km quadrati, una superficie più grande di tutta l’Europa occidentale e pari a 22 volte l’Italia. Questa signori è l’Amazzonia. Dimensioni che danno le vertigini, invitando ad un supplemento di umiltà, stupore e responsabilità verso questo dono immenso, con cui la divina Provvidenza ci ha munificato.

Proprio a questo “continente”, vitale per le sorti del pianeta, papa Francesco ha voluto dedicare il sinodo speciale dei vescovi che si terrà in Vaticano nel prossimo ottobre. Per restare idealmente in consonanza con papa Francesco e con i vescovi di tutta la Terra, monsignor Migliavacca, accompagnato da una piccola delegazione composta da don Armando Zappolini, due giovani studenti universitari e un sacerdote pavese, ha compiuto nei giorni scorsi un viaggio in questa regione così irrinunciabile, come così martoriata, toccandone un suo lembo che si proietta nello Stato dell’Ecuador e visitando al contempo l’El Salvador.

Un itinerario innanzitutto per riflettere, andando a conoscere alcuni progetti di accoglienza per ragazzi in difficoltà; ma anche un “pellegrinaggio” per calcare le orme del vescovo martire Romero e di tanti sacerdoti testimoni, uccisi in fedeltà al vangelo. «Quanto abbiamo visto – ci ha detto il vescovo Andrea per telefono – ci ha aiutato a riscoprire la forza della teologia del popolo di Dio, che ha nell’America Latina la sua culla. È la teologia che spiega e fonda il magistero di Papa Francesco. Da qui lo si capisce ancora di più e si comprende come nella Chiesa e nel mondo di oggi Papa Francesco e la sua opera e parola siano davvero un grande dono».

Ma andiamo con ordine. L’itinerario di questa nostra delegazione parte dal villaggio di Shandia, in Ecuador, per un confronto pelle a pelle con la comunità dell’etnia Quechua dell’Amazzonia. Qui, negli anni, sono state realizzate forme di lavoro e turismo comunitario di grande significato. Da lì a un tiro di fionda, si spalanca la voragine di bellezza delle foreste e cascate del Rio Napo, affluente del Rio delle Amazzoni, dove gli indigeni t’ingaggiano con la loro passione accesa per la difesa del Creato.

Ci dice don Zappolini: «Ci è sembrato importante in queste settimane in cui l’Amazzonia è aggredita dagli incendi e assalti di un’economia criminale, disposta a distruggere anche la vita delle persone pur di fare soldi, essere qui e portare vicinanza e sostegno alla passione di queste persone. Siamo stati accolti in modo commovente e proiettati per tre giorni in questa bellezza della natura che lascia senza fiato. Abbiamo condiviso la loro vita, i costumi e la ricchezza della loro umanità».

Seconda tappa: arrampicata di 210 km verso occidente, sulla cordigliera delle Ande, per raggiungere la periferia di Quito, capitale dello Stato, a tremila metri di altitudine, dove il vescovo e i suoi compagni di viaggio sono stati ospiti della fondazione Asa (Associazione di Solidarietà e Accoglienza), una realtà storica che lavora per accogliere minori e adolescenti abbandonati o con gravi problemi sociali e penali. Un’associazione che nel tempo ha saldato importanti legami di cooperazione con il Bhalobasa di Perignano, e dove i Nostri hanno sperimentato il significato profondo dell’accoglienza di cui sono capaci le periferie latino americane, così disordinate e caotiche, ma anche così vitali e generose. «Quando il Papa parla di “Chiesa in uscita”, si coglie bene – è ancora don Armando a parlare – che viene da questo tipo di esperienza nel quale le comunità ecclesiali non sono chiuse dentro i propri riti ma hanno energia giovane per lanciarsi nel mondo e camminare accanto ai poveri. Qui c’è un amore, una riconoscenza verso i sacerdoti… Ieri il vescovo ha celebrato la messa in una di queste parrocchie poverissime. Ebbene, la gente ci ha sommerso di abbracci e affetto. A Quito abbiamo toccato con mano la speranza, di cui in Occidente siamo così poveri. Una speranza che racconta come il cambiamento è sempre possibile. Davvero un crocevia di razze e di mondi dove Dio si sente vicino».

Un’altra parte del viaggio è stata dedicata a visitare le comunità indio della Sierra nelle città di Otavalo e Ibarra, nel centro dell’Ecuador. A Ibarra il nostro presule ha pregato sulla tomba di monsignor Leonidas Proaño, soprannominato “il vescovo degli Indio”, che fu anche padre conciliare e autore del celebre “Patto delle catacombe”. Un uomo di Dio, profondamente calato nella vita degli indigeni, che ha aiutati ad acquistare consapevolezza e dignità, in tempi in cui la chiesa locale era ancora collegata al potere. Quando fu nominato vescovo di Rio Bamba nella Sierra, scoprì con orrore che nelle fattorie di proprietà della sua diocesi, i lavoratori indio venivano frustati e torturati. Fu allora che decise di spogliarsi degli panni curiali e della distanza che lo separava dai poveri e di indossare il poncho, per camminare a fianco di queste popolazioni ferite e offese. Oggi la sua tomba è meta continua di pellegrinaggio, e hanno raccontato i Nostri «stando lì a pregare, si assorbe facilmente un po’ della sua luminosa storia e dello spirito di resistenza che promana da queste comunità di base».

L’ultimo stadio del viaggio è stato l’incontro con la comunità “Cristo de la calle” (“Cristo di strada”), che da 26 anni accoglie bambini abbandonati, con situazioni di grande dolore alle spalle. Storie in frantumi ricostruite nella fatica e nella tenerezza di tanti generosi operatori e volontari. Proprio la realtà del “Cristo della strada”, fa ben cogliere oggi come alcune esperienza della Teologia della liberazione, superati gli eccessi, si sia rigenerata in una originale teologia del popolo, capace di offrire una lettura dal basso della storia e di stimolare ad un cammino di cambiamento. «Conoscere il bene operato da realtà come il “Cristo de la calle” – ci ha detto Iacopo, uno dei due studenti del gruppo – risulta di grande stimolo per generarne di ulteriore: anche il nostro Paese, come e forse ancor più dell’Ecuador, ne ha un bisogno vitale». Emblematiche anche le parole di Antonio, 22 anni, l’altro studente della compagnia: «Questo viaggio mi segna nel profondo, ribaltando la mia personale gerarchia dei problemi da affrontare. Posso dire, parafrasando Proust, che non ho visto posti nuovi, quanto piuttosto che torno a casa con occhi nuovi».