Covid e dintorni

Confessioni di un asintomatico

di don Francesco Ricciarelli

Dopo 9 settimane e 1/2 il coronavirus mi ha lasciato. Posso definirmi un ex-positivo di lungo corso e mi ritengo fortunato: sono rimasto sempre asintomatico o paucisintomatico e alla fine, in qualche modo, ne sono uscito. Le precauzioni per evitare di contrarre il virus sono note: mascherina, distanziamento sociale, igiene delle mani. Ma una volta avvenuto il contagio non ci sono indicazioni da seguire né medicine ad hoc per affrettare la dipartita di quest’ospite sgradito. C’è soltanto da sperare che il sistema immunitario funzioni a dovere e, armati di santa pazienza, affrontare un periodo di isolamento e di ridotta attività dalla durata indefinita.

Dopo 21 giorni, è vero, in assenza di sintomi si può chiedere all’Asl la dichiarazione di fine isolamento. Io l’ho fatto e, dopo un’ulteriore attesa di circa una settimana, è arrivata la liberatoria. Con quel “lasciapassare” in tasca sono potuto uscire di nuovo a far compere o a passeggiare in solitaria… ma questo non voleva dire assolutamente essere guarito. Risultavo ancora positivo, benché a bassa carica, e non era prudente che riprendessi la mia attività. Come avrei potuto giustificare comportamenti che avrebbero facilmente esposto gli altri al rischio del contagio? Così, anche nei giorni di Avvento e di Natale sono rimasto da solo, chiuso in casa. Intanto era entrato in vigore il nuovo Messale, dal santuario provenivano i canti della novena, poi «Tu scendi dalle stelle»… ma per me il tempo si era come fermato.

La sfida era quella di non lasciarsi sopraffare dall’ansia o dal tedio, per cui ho adottato questa strategia: niente televisione, usare i social il meno possibile e dedicarmi piuttosto a passatempi “immersivi” come la lettura. In questo modo ho riscoperto i grandi classici che di solito si leggono durante l’adolescenza o la prima giovinezza. Epopee mastodontiche come Guerra e pace o romanzi d’avventura che non danno tregua al lettore, come Il conte di Montecristo… È stato bello leggerli adesso, con l’esperienza e la sensibilità dei cinquant’anni. Vi assicuro che anche a quest’età ci si può identificare, specialmente in occasione di una lunga e incolpevole detenzione, con Edmond Dantès o con l’abate Faria.

I tamponi intanto si susseguivano, senza che la situazione si sbloccasse o che l’organismo desse alcun segnale di quello che realmente stava accadendo. In questi frangenti vi assicuro che è perfettamente inutile stare col fiato sul collo del degente, incitandolo a guarire. È risultata preziosa, invece, la disponibilità di anime buone che si sono prestate a svolgere piccole commissioni o a chiacchierare del più e del meno. In ogni caso, un po’ galateo è richiesto per trattare coi positivi di lungo corso, per evitare di esasperarli, ad esempio, con espressioni di meraviglia e frasi del tipo: «Sei ancora positivo? Ma quando guarisci?», magari facendo confronti con altri pazienti che hanno beneficiato di un decorso più veloce. In realtà, nessuno più del diretto interessato sente il peso della sua prolungata inattività. Non c’è bisogno di rinfacciarglielo, tanto meno con sbuffi di insofferenza (mi è capitato anche questo). Considerate che un bel giorno potrebbe arrivare anche per il positivo di lungo corso la sospirata negativizzazione e allora, come Edmond Dantès, può darsi che vi venga a cercare.