COMMENTO

Beatificazione di Pio Alberto Del Corona

Commento Liturgico-Musicale

Da virtutis meritum (dona virtù e premio)
Da salutis exitum (dona morte santa)
Da perenne gaudium (dona gioia eterna)
Amen.
Così si conclude la Sequenza che si recita, anzi si prega, nel giorno di Pentecoste, prima della proclamazione del Vangelo.
San Miniato ha riceve la gioia e la grazia di festeggiare questa verità con una luminosa Liturgia Eucaristica in occasione della Beatificazione di Pio Alberto del Corona, vescovo della Diocesi a cavallo tra fine Ottocento e inizio Novecento. La celebrazione si  tiene la mattina del 19 settembre 2015 nella chiesa del convento cittadino dei francescani, presieduta dal Cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione per le cause dei santi, e concelebrata da numerosi vescovi della Toscana.
La grande tradizione di amore e cura alla Santa Liturgia, che da sempre contraddistingue San Miniato, viene onorata  come sempre  in maniera esemplare. Eleganza orante, ma anche preziosità decorosa e misurata che guardano verso una modernità sempre attenta al meglio della tradizione, sottolineano ed esaltano ogni singolo momento della celebrazione, snodandosi attraverso i santi segni, la Parola e la musica che ne è veicolo privilegiato. Si tratta di una catechesi alta, ma necessaria affinché i fedeli percepiscano fino nel profondo che non si tratta di una “normale” Messa di tempo ordinario, ma di un momento particolare di Comunione e – di conseguenza – di grande festa con la Chiesa universale e il Cielo.
La suggestiva processione introitale aperta dalla croce astile, fa ingresso in chiesa sulle note del canto “Santo è il tuo nome” il cui tema è la relazione tra l’amore del credente verso il Padre e lo stimolo che ne deriva a collaborare con entusiasmo alla costruzione del Regno di Dio. Così, nel momento che simboleggia il Cristo che viene ad incarnarsi per amore dell’uomo, la Chiesa sanminiatese, grata per il dono di un vescovo santo, presenta al suo Signore la propria disponibilità ad essere pienamente attiva nel progetto a cui è chiamata a partecipare con consapevolezza, nella prova, ma soprattutto nella serenità e nell’accoglienza alle indicazioni dello Spirito.
La “Missa de Angelis” porta nel canto le parti cosiddette “fisse”, con il Kyrie e il Gloria  impreziositi dalle parti polifoniche di Giuseppe Liberto, maestro di cappella emerito della Cappella Musicale Pontificia “Sistina”. Tali strutture non si articolano nel consueto “botta e risposta” tra schola e assemblea, ma sembrano ricalcare sia i ruoli della chiesa celebrante e docente, sia quelli della chiesa discente e orante: l’una annuncia e la seconda risponde alle invocazioni, ma entrambe – come a dimostrare una reciproca e imprescindibile indispensabilità – si alternano in modo quasi paritario nelle parti maggiormente dossologiche: una rappresentazione di un’assemblea diocesana che, umile ma festante proprio nella sua ecclesialità, si permette di levare il capo a sottolineare, sull’esempio del “suo” nuovo santo, che la salvezza è vicina, presente.
In questa liturgia è centrale anche la tematica della pastoralità, annunciata nel salmo responsoriale, tratto dal Salmo 23, il cui ritornello sale con le note fino a posare l’accento sull’aggettivo possessivo “mio” nel grado più alto di estensione. “il Signore è il mio pastore”: è “mio” per tutti, per ognuno, come se qualsiasi singolo essere vivente fosse “un principe dell’universo”, come una volta ebbe occasione di dire Don Tonino Bello, per descrivere la cura di Dio Padre verso ogni uomo che il mondo si permette di classificare come “ultimo”. La seconda proposizione del responsorio, “non manco di nulla”, si chiude sulla stessa nota su cui si articola l’aggettivo possessivo del primo emistichio, ma più bassa di un’ottava: il tono della preghiera si distende nella certezza e nella fiducia incondizionata ma cosciente verso la Provvidenza.
Le offerte  vengono presentate sulle note del “Deus caritas est” di Botor, le cui strofe che vedono un paroliere d’eccezione: San Paolo. Il capitolo 13 della Prima lettera ai Corinzi offre uno spunto di meditazione sulla centralità della carità come via diretta di santità e salvezza, fattore che contraddistingue interamente anche la vita del Beato Pio Alberto Del Corona, come sottolinea l’omelia del cardinale. Liturgicamente, la carità è sempre tema centrale dell’offertorio, in cui si portano quei doni che l’amore perfetto di Cristo trasformerà in vero Corpo e vero Sangue, e all’accostamento verso i quali la “caritas” descritta da San Paolo conduce, dispone e avvicina. È un momento di grande potenza catechetica per il fedele, chiamato ad amare totalmente quell’amore che lo investe e lo vivifica nella sua totalità. Il canto aiuta tale disposizione d’animo, con il compito di anticiparlo in maniera descrittiva.
Per la Cena dell’Agnello, l’assemblea è accompagnata in processione da un canto nuovamente di Liberto, costruito sul Salmo 34. “Gustate e vedete com’è buono il Signore”: al credente che si ciba di Cristo viene volto un imperativo che, paternamente, gli comanda di gustare, prima di vedere, la bontà di Colui che ha dato la vita per la salvezza degli uomini. Si gusta ad occhi chiusi, il cibarsi diviene così il più grande atto di fede che dà per premio la limpidità di sguardo per guardare al Cielo. Solo credendo è possibile vedere ciò che è sostanzialmente presente nell’Eucaristia. Gustando, sentendo questa bontà nelle proprie membra, la Chiesa diviene capace di aprire gli occhi e constatare anche con la razionalità la bontà di Cristo verso la sua sposa. E’ una mensa aperta specialmente agli umili, a chi, appunto ha levato il capo non per arroganza, ma per fiducia in una salvezza e in una grazia certe e garantite. Perché questa degustazione cosciente non sia disturbata da altri sensi, la musica si inserisce discreta, moderna e in alcuni punti dissonante, in modo da riportare l’attenzione non sulle soluzioni armoniche, ma su ciò che sta avvenendo dentro ognuno: la Comunione perfetta con Gesù.    
Nel ringraziamento, poi, si medita la sorte del giusto. “Os iusti” di Bruckner, che cita i versi 30 e 31 del Salmo 37, muove da una centralità anatomica, un focus sulla bocca, per trasferirsi direttamente sul piano morale. Proclamare la sapienza, esprimere giustizia, il portare la legge di Dio nel cuore, e il passo sicuro nella vita, sono i benefici dell’Eucaristia, sono i presupposti della santità. Tutto si innalza con gusto e impronta ottocenteschi, senza perdere di vista la tradizione romana, maestra di preghiera e di elevazione dell’anima. Il testo termina con la parola “alleluia” che si articola, però, monodicamente: una pluralità singolativa, un accento sul fatto che il popolo di Dio, nel suo essere “molti”, è soprattutto “uno”, inscritto nel mistero di passione, morte e resurrezione del suo Salvatore.
A sigillare tale concetto “Exultate iusti in Domino, rectos decet collaudatio”, per il congedo. La traduzione in italiano, come purtroppo accade in molti casi, fa perdere un po’ di vista la pregnanza di significato del testo latino: “esultate giusti nel signore, ai retti si addice la lode”. In realtà,  ciò che Ludovico da Viadana musica squisitamente con una polifonia secentesca già pronta ad accogliere il barocco, non è una semplice lode, ma una lode che non può fare a meno di essere collettiva: questo il senso sostanziale di “collaudatio”, parola chiave del ritornello, nonché anima tematica e programmatica del canto.
Collettiva è stata e continua ad essere la festa della Chiesa sanminiatese che rende grazie per il santo che le è stato donato; collettiva è la Chiesa stessa, che nelle sue membra gioisce nel costituire l’Uno per eccellenza: il Corpo di Cristo. 
 
 
                                                                                                                                 Luca Sollazzi